Alla ricerca della decorrelazione

Il 2023 ha mostrato quanto sia fondamentale la diversificazione e la ricerca della decorrelazione tra gli attivi all’interno di un portafoglio. Gli asset privati/asset alternativi possono essere una risposta a questa necessità, pur ricoprendo ancora un ruolo marginale, in Italia, nelle varie soluzioni di investimento. A parlare di questo vasto settore è Giacomo Cristofori, head of Italy and Iberia investment sales specialist real estate & private markets di Ubs Asset Management. 

In mercati nei quali diventa sempre più importante cercare la decorrelazione all’interno dei portafogli, quale ruolo possono ricoprire gli asset alternativi?

«Gli asset alternativi hanno solitamente una bassa correlazione con l’equity quotato e, a volte, anche leggermente negativa con il debito quotato, sostanzialmente per tre ragioni. In primis, c’è una minore frequenza del calcolo del valore dello strumento, che non è giornaliera. In secondo luogo, i tempi di reazione alle variabili macroeconomiche sono diversi rispetto agli attivi tradizionali. Infine, gli asset alternativi permettono anche una diversificazione al loro interno, perché tra i comparti del real estate, che a sua volta presenta dinamiche diverse in base alle aree di appartenenza, delle infrastrutture e del private equity (ambiti in cui Ubs Asset Management opera), c’è una bassa correlazione. È proprio con la ricerca della decorrelazione che, come indica il modello di Markovitz, si riesce a ottenere un’ottimizzazione all’interno di un portafoglio».

Perché è diventato più importante inserire questa asset class all’interno di un portafoglio?

«Proprio per le ragioni sopra addotte. Le due maggiori asset class si muovono nella stessa direzione; un portafoglio 60/40 che, in base al profilo di rischio del cliente, poteva essere costituito da un 60% in equity e un 40% in bond quotati, o viceversa, oggi potrebbe essere strutturato in tre classi di attivi con il 40% allocato in obbligazioni, il 40% in azioni e il 20% in asset alternativi non quotati. La necessità di modificare la composizione dei propri investimenti trova spiegazione anche nell’esigenza di fare fronte ad alcune variabili, come quelle geopolitiche, che richiedono la creazione di portafogli più resilienti, che sappiano cogliere anche i megatrend: queste strategie non possono mancare nell’allocazione per un cliente evoluto».

Quali sono i megatrend ai quali fa riferimento?

«Sono i trend secolari che possono essere così riassunti: digitalizzazione, deglobalizzazione, demografia e decarbonizzazione. Il Covid ha accelerato il processo di diffusione della comunicazione digitale e, con l’introduzione del lavoro agile, è cambiato l’utilizzo degli uffici, creando una divergenza di valore tra gli immobili e, contemporaneamente, generando anche nuove opportunità con il cambio di destinazione d’uso di molti di essi. L’e-commerce, cui tutti siamo ormai abituati, ha fortemente penalizzato alcuni attori del mercato, in particolare i centri commerciali, ma ha fatto emergere l’importanza della logistica e ciò ha avuto un effetto sul valore degli asset immobiliari coinvolti, ma anche sulle infrastrutture necessarie a rendere possibile la gestione delle merci e la loro distribuzione in tempi ridotti. Ma non solo. A tutto ciò si è aggiunto anche un upgrade tecnologico, con l’introduzione del 5G e le coperture delle connessioni a livello satellitare, che riguardano anche le abitazioni residenziali. L’invecchiamento della popolazione ha portato, per esempio, a una domanda di case per la popolazione più anziana, mentre cresce quella di alloggi per studenti che decidono di continuare la loro formazione lontano dalla loro abitazione principale. Sono in aumento anche gli immobili residenziali destinati ai grandi dirigenti di azienda che, vista la loro maggiore mobilità, necessitano di abitazioni in affitto con una serie di servizi di elevata qualità e sofisticati. Infine, la deglobalizzazione, che è il rovescio della medaglia delle tensioni geopolitiche, vede allargarsi il fenomeno dell’in-shoring, che richiede la realizzazione di modalità di trasporto alternative e di reti di distribuzione d’energia prossime alle attività produttive. Sono tutte dinamiche in atto che investono l’ambito del real estate, delle infrastrutture e del private equity».

Le opportunità che lei ha elencato, possono essere colte all’interno del mercato italiano?

«Purtroppo, certe asset class hanno raggiunto la maturità e la trasparenza, diventando di carattere istituzionale, fuori dal nostro Paese. Facevo prima l’esempio del living (la nuova domanda di unità abitative), che è un segmento dove il proprietario, in Italia, non è particolarmente tutelato da un punto di vista giuridico, mentre all’estero c’è la certezza del diritto e, di conseguenza, incassare un canone di locazione è più agevole. Lo stesso vale per le iniziative di logistica, che sono di più ampia scala di quanto non siano nel nostro Paese. Ci sono poi alcuni attivi di nicchia, come il life science, che da noi non sono così presenti: sono società di biotecnologia che esprimono una domanda molto specialistica di strutture moderne che devono, però, essere inserite in un contesto imprenditoriale e accademico di grande effervescenza. Avere queste realtà sul territorio significa attrarre consistenti investimenti di macchinari  e laboratori per metro quadrato di superficie occupata, grazie anche all’attrazione che generano i maggiori centri universitari, come il triangolo tra gli atenei di Londra, Cambridge e Oxford. È per queste ragioni che la diversificazione geografica diventa fondamentale per cogliere i trend emergenti laddove sono più sviluppati».

Prima ha fatto riferimento a una tipologia di portafoglio in alternativa al classico 60/40, in particolare per i clienti evoluti. È il modello che raccomandate?

«Nello svolgere la nostra attività non raccomandiamo, ma rappresentiamo ciò che osserviamo. Il 20% menzionato in precedenza è una percentuale che potrebbe essere più bassa, se il cliente ha una maggiore esigenza di liquidabilità del portafoglio, o ampiamente più alta, se si parla con un investitore istituzionale, la cui esposizione può andare oltre il 30%. Per quanto riguarda i family office, in base ad alcune ricerche, questa percentuale varia tra il 40% e il 50%. Le famiglie che hanno patrimoni ingenti generalmente hanno circa, se non oltre, il 50% di asset alternativi in portafoglio, di cui le prime due voci sono private equity e real estate, mentre la componente infrastrutture è meno diffusa».

Come mai la componente infrastrutturale è meno presente?

«Forse perché l’internal rate of return, una metrica che viene utilizzata per valutare la redditività di un investimento, è inferiore a quello del private equity, pur sommando la capacità di crescita del capitale a quella di generare reddito».

Ma qual è la presenza media degli asset alternativi all’interno della clientela private italiana?

«Le dimensioni del private banking in Italia nel 2023 erano di circa 1,1 trilioni di euro e l’esposizione agli investimenti alternativi di circa 8 miliardi, ossia lo 0,82%. È evidente che la percentuale è estremamente contenuta e c’è molto spazio per essere aumentata».

A che cosa ascriverebbe questo peso residuale?

«In Italia c’è un’attenzione alla casa di proprietà: l’80% dello stock residenziale è detenuto direttamente, un unicum in Europa. A ciò si aggiunge il fatto che, nel caso di imprenditori, l’azienda assorbe gran parte del capitale a disposizione. Crediamo che, soprattutto in un’ottica di passaggio generazionale, sia opportuno riconsiderare il patrimonio nella sua interezza e valutare se è il caso di mantenere una forte esposizione al settore immobiliare domestico, perché l’elevata concentrazione espone inevitabilmente a rischi. Ritengo che siano tre gli aspetti che hanno causato la freddezza nei confronti di questa tipologia di investimenti. Innanzitutto, il private equity, il real estate e le infrastrutture sono attività accomunate da una caratteristica di illiquidabilità, alla quale si aggiunge un effetto J curve. Con quest’ultimo concetto mi riferisco al pagamento delle commissioni di gestione nei primi anni di vita del fondo di private asset che, inevitabilmente, impatta sulla performance. Il terzo fattore è il riconoscimento della qualifica di “professionale” all’investitore che vuole operare in tale ambito attraverso procedure non sempre snelle. Ora la situazione sta mutando. Per quanto riguarda la liquidabilità, esiste la possibilità di avere i prodotti “evergreen”, soluzione quest’ultima che attutisce anche gli effetti negativi della J curve; in merito alla qualificazione dell’investitore, l’arrivo degli Eltif ha aperto le porte del mercato anche al segmento retail».

Quali sono le caratteristiche dei fondi evergreen?

«Sono prodotti con strutture semi-chiuse senza una scadenza, generalmente con una frequenza mensile o trimestrale. Vengono riaperte finestre di sottoscrizione o rimborso, che permettono di liquidare più facilmente le posizioni in essere e consentono agli investitori, in condizioni di mercato normale, di decidere quando acquistare e vendere a un Nav calcolato dal gestore. Avendo un portafoglio già formato, è più semplice comprenderne il profilo di rischio e ammortizzare i costi iniziali. Consideriamo i fondi “evergreen” soluzioni particolarmente interessanti: nel mercato statunitense hanno una storia molto più lunga dei fondi chiusi e hanno superato le diverse crisi avvenute nei decenni passati. Crediamo che ora ci siano gli strumenti idonei per aumentare la percentuale degli alternativi nei portafogli, al pari degli investitori istituzionali e dei family office, in Italia e all’estero. Tuttavia, è opportuno ricordare che il prodotto “evergreen” va saputo presentare al banker e, a sua volta, al cliente, perché rimane comunque una soluzione non liquida, con un orizzonte d’investimento di cinque o sette anni; non deve essere utilizzata per fare trading e su questo strumento va allocata una percentuale del proprio patrimonio di cui non si ha necessità di immediata disponibilità. Il successo di questo prodotto può essere ottenuto quando le sottoscrizioni superano i rimborsi, situazione che si verifica se è ben gestito e in condizioni di mercato normali. Ma attenzione, quando ciò non si verifica, il fondo, per evitare di svendere il portafoglio, chiude le finestre per non danneggiare gli stessi investitori».

Qual è stato l’impatto dell’aumento dei tassi sugli alternativi?

«Dipende da quale strumento finanziario si considera. L’aumento dei tassi è stato repentino e consistente. Nel caso degli immobili, se il tasso privo di rischio aumenta, anche il rendimento lordo da locazione (rapporto canone su valore di mercato) dovrebbe muoversi nella stessa direzione. Tuttavia, poiché l’adeguamento all’inflazione è stato più lento dei tassi d’interesse, la correzione è avvenuta con una svalutazione dell’immobile. Le infrastrutture, invece, poiché sono essenziali per la qualità della vita, operano con elevate barriere all’entrata e in regimi giuridici che le portano a essere quasi di semi-monopolio, dinnanzi al fenomeno dell’inflazione sono riuscite a passare a valle, sui clienti finali, l’aumento dei prezzi, generando un incremento dei fatturati per le società che le gestiscono. Ne consegue che, in questo ambito, non ci sono state svalutazioni o sono state minime».

E a tendere che cosa vi aspettate?

«Per quanto riguarda il real estate, pensiamo che gran parte della correzione sia alle spalle. Nel 2024 ci attendiamo una stabilizzazione, mentre nel 2025 dovrebbe esserci una ripresa del ciclo. Le infrastrutture sono state un asset stabile in un periodo di grande volatilità, ma se i tassi rimanessero elevati, bisognerebbe essere molto selettivi e prestare attenzione. Allo stesso tempo, per il private equity, vediamo una grande opportunità sul mercato secondario, proprio perché i profondi cambiamenti cui si è assistito hanno provocato diverse vendite forzate da parte degli investitori istituzionali, causate dallo sforamento dei limiti di investimento: sul mercato ci sono bellissime offerte di prodotti di qualità che attualmente vengono proposti a sconto, anche a doppia cifra».

Pinuccia Parini

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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