L’innovazione secondo Google

Matteo Gorini, ThinkinPark.it

“Google non è un’azienda convenzionale. E non intendiamo diventarlo”: questa è la frase con cui Larry Page e Sergey Brin aprono la Founder’s IPO Letter scritta nel 2004 in occasione della quotazione in borsa.

Lungo periodo e approccio probabilistico

La lettera contiene anche un altro avvertimento: Google è focalizzata sul lungo periodo, anche a costo di sacrificare i risultati finanziari a breve termine. In un settore caratterizzato da cicli brevi, grande volatilità e difficoltà previsionale, Page e Brin ritengono che l’unico approccio vincente sia quello probabilistico: non esitano a investire in progetti ad ampio respiro, caratterizzati da elevate probabilità di fallimento, ma che potenzialmente possono portare a ritorni molto elevati. La capacità di perseguire con costanza queste iniziative, anche in segmenti molto distanti dal core business, è, secondo Page e Brin, il requisito fondamentale per mantenere il successo nel lungo periodo.

Waymo, la società che sviluppa i sistemi di guida autonoma, Project Loon che ha l’obiettivo di portare l’accesso a internet ai 5 miliardi di popolazione non ancora connessi utilizzando palloni a elio, sono solo due esempi del portafoglio attuale di scommesse su cui Google sta puntando (non a caso i fondatori le chiamano “other bets”).

Per preservare questo approccio pionieristico ed evitare quella che Eric Schmidt, quando era ceo di Google, ha definito «la sindrome della grande azienda», cioè la tendenza ad accontentarsi, rallentare, favorire i processi rispetto alle idee, nel 2015 è stata creata la holding Alphabet. Le other bets sono diventate società indipendenti: in una struttura più snella i manager possono essere più focalizzati sullo sviluppo di nuovi prodotti.

Focus sul prodotto

Quando Page e Brin fondarono Google non avevano nessuna esperienza di business e adottarono di conseguenza un approccio piuttosto naïf: niente business plan, nessuna strategia finanziaria complicata, ma pochi semplici principi, primo fra tutti quello di creare grandi prodotti che potessero migliorare la vita degli utilizzatori. Il ragionamento era il seguente: se sviluppiamo prodotti significativamente migliori di quelli esistenti, poi troveremo sicuramente il modo di monetizzarli in una fase successiva.

La scelta di porre un focus quasi esclusivo sullo sviluppo prodotti si è rivelata vincente, perché i cambiamenti tecnologici hanno stravolto il contesto competitivo. In particolare, tre fattori sono diventati esponenzialmente più disponibili rispetto al passato: informazione, connessione e capacità computazionale. Gli effetti sono stati disruptive per tutti i settori in cui l’informazione gioca un ruolo determinante: i leader di mercato hanno visto un quasi totale abbattimento delle barriere all’entrata e un’erosione istantanea dei vecchi vantaggi competitivi a favore dei nuovi entranti.

In questo contesto, l’eccellenza del prodotto acquista un valore chiave. Infatti, mai come ora i consumatori sono nelle condizioni di informarsi o di effettuare scelte alternative: in passato le aziende potevano trasformare prodotti mediocri in successi commerciali grazie a strategie di marketing e al controllo della distribuzione. Oggi non è più così. Come ben fotografato da Jeff Bezos,«nel vecchio mondo si dedicava il 30% del tempo a sviluppare un grande servizio e il 70% del tempo a promuoverlo. Nel nuovo mondo è il contrario». Il secondo fattore critico è stato l’accorciamento dei cicli di prodotto: lo sviluppo tecnologico ha ridotto i tempi e i costi per sviluppare e testare nuove soluzioni. Piccoli gruppi di ingegneri e designer possono costruire in poco tempo prototipi e testarne l’efficacia: anche in settori più tradizionali le tecnologie digitali e 3D hanno reso molto più semplice il processo di sviluppo. La competizione sul prodotto è destinata a crescere e la velocità di esecuzione diventa un fattore critico per fare la differenza.

Le regole dello sviluppo prodotti

In Google ogni prodotto in fase di sviluppo deve superare quello che Page definisce il «test dello spazzolino», cioè ambire a essere utilizzato da un numero elevato di persone almeno una o due volte al giorno (pensate a Google search, a Gmail o a YouTube). L’innovazione è quindi perseguita in mercati che sono, o sono destinati, a diventare molto grandi e in cui sono già attivi numerosi competitor, ma dove il progresso tecnologico è più lento del potenziale per mancanza di focus dei player esistenti. Non si va alla ricerca di praterie deserte senza competizione: il fatto che alcuni mercati siano ancora “vuoti”, significa probabilmente che non hanno il potenziale per diventare abbastanza grandi. Nel segmento dei motori di ricerca Google non è partita per prima e Chrome è stato lanciato solo nel 2008 tra lo scetticismo generale di chi si chiedeva se c’era proprio bisogno di un nuovo browser: oggi lo usa il 60% degli utenti internet. Ma l’aspetto più importante è la convinzione che il successo del prodotto dipenda dall’intuizione tecnica che lo caratterizza: un nuovo modo di applicare una tecnologia o un design, che ha l’effetto di ridurre significativamente i costi o incrementare in maniera evidente le funzionalità rispetto alle soluzioni esistenti. L’intuizione tecnica alla base di Google search fu l’algoritmo PageRank sviluppato da Page e Brin: questo algoritmo migliorava decisamente i risultati della ricerca prendendo in considerazione anche i link incrociati tra i diversi siti web.

La tensione verso un’intuizione tecnica consente di evitare prodotti lanciati per imitare la concorrenza, guidati dalle esigenze attuali dei clienti, e di sviluppare invece soluzioni potenzialmente disruptive che consentono di anticipare i bisogni futuri. Si assiste quindi al passaggio da un mondo in cui lo sviluppo prodotti era basato sulle ricerche di mercato a un mondo in cui il principio guida è la generazione di nuove intuizioni tecniche che vengono immediatamente testate sugli utilizzatori per valutarne l’efficacia.

Scalabilità

Page e Brin hanno da subito compreso l’importanza del concetto di scalabilità, come principio fondante del loro business. Il modo più efficace per massimizzare l’effetto scala è sviluppare ecosistemi, piattaforme aperte dove i partecipanti hanno interesse a fornire il proprio contributo per fare crescere ulteriormente la piattaforma.  Android è l’esempio più chiaro: Page e Brin decisero di condividere i codici del sistema per creare una piattaforma che potesse essere utilizzata da diversi operatori telefonici e produttori di cellulari. Essendo un sistema aperto, oggi Android è presente non solo sui cellulari, ma anche nei tablet di Amazon, nei giochi elettronici, nei tapis roulant, nei frigoriferi e così via. Quando molte delle cose attorno a noi saranno collegate a Internet (Internet of Things), non ci sarà da stupirsi se Android sarà il sistema operativo di riferimento.

Quando chiesero a Page: «Qual è il numero di ingegneri che vorresti lavorassero per Google?» Lui rispose: «Un milione!» In effetti non ci è andato molto lontano se si considerano i tecnici di tutte le aziende che lavorano su Android per adattarlo ai propri device o per produrre nuove app.

L’allocazione delle risorse

Per trovare un equilibrio nell’allocazione delle risorse, Brin ha ideato la regola del 70/20/10: il 70% del budget viene destinato ai business core, il 20% a quelli emergenti che hanno già ottenuto qualche successo e il 10% a progetti completamente nuovi che hanno un alto rischio di fallimento, ma un potenziale elevato. Questa regola fa sì che gran parte delle risorse siano destinate ai settori che guidano la redditività, però salvaguarda il fatto che le idee “alternative” abbiano sempre un finanziamento e siano protette da tagli di budget. Il 10% è considerato il giusto compromesso: non si vuole sovrainvestire in nuove idee per evitare il confirmation bias, cioè la tendenza da parte dei manager a vedere solo il buono in progetti in cui si è già speso tanto. Inoltre, risorse limitate stimolano la creatività e la ricerca di soluzioni originali.

Per favorire la creatività dei singoli, viene inoltre applicata la regola del 20%: ogni dipendente può utilizzare il 20% del proprio tempo per promuovere progetti nuovi, anche su temi distanti dalla propria attività principale. La regola del 20% ha funzionato talmente bene, che è stato creato il programma Area 120: i ricercatori che sviluppano i migliori progetti 20%, hanno la possibilità di lavorarci al 100% del loro tempo (100 + 20 = 120!). Il programma fornisce risorse, budget e autonomia trasformando questi progetti in vere e proprie start-up all’interno dell’azienda.

Google promuove inoltre l’auto-organizzazione dei team: gli ingegneri sono suddivisi in piccoli gruppi e ai manager viene applicata una versione modificata della regola del 7: se in molte aziende si fissa a 7 il numero massimo di riporti, in Google 7 è il minimo. Questo approccio favorisce una struttura piatta ed esalta la libertà di azione dei dipendenti, in quanto i manager, con così tanti riporti, non hanno tempo per entrare nei dettagli e sono costretti a focalizzarsi sul contesto.

Ship and iterate

Per lanciare i prodotti sul mercato, in Google la parola d’ordine è “ship and iterate”. Nessun prodotto può essere perfetto nella sua configurazione iniziale e non si può prevedere se avrà successo: per questo occorre lanciarlo (ship) non appena possibile, raccogliere feedback e iniziare un processo di miglioramento incrementale continuo (iterate).

Il modello “ship and iterate” è accompagnato da un meccanismo di allocazione degli investimenti definito feed the winners/starve the losers: le risorse vengono incrementate sui prodotti che dopo il lancio acquistano quote di mercato e sono tagliate su quelli che non decollano, indipendentemente dagli investimenti che sono stati effettuati in precedenza.

Anche i piani di marketing seguono la stessa filosofia: gli investimenti sono mantenuti al minimo nella fase iniziale per evitare che si crei troppa attenzione su prodotti che alla prova dei fatti potrebbero non rispettare le attese. Solo quando Chrome arrivò a 70 milioni di utilizzatori organizzò una campagna pubblicitaria: il prodotto doveva dimostrare di potere stare in piedi da solo.

Gestire i fallimenti

Un modello come quello di Google, così improntato all’innovazione, richiede una particolare attenzione nella gestione degli inevitabili fallimenti di buona parte delle idee che vengono esplorate.

Se un progetto fallisce, viene analizzato attentamente per capire se qualche intuizione tecnica può essere riutilizzata in progetti futuri. I componenti del team “fallito” non vengono penalizzati, ma sono riallocati su altri progetti interessanti: si vuole evitare la diffusione di una cultura conservativa che rinunci all’esplorazione per paura di fallire. Si crea così un contesto resiliente in cui gli inevitabili fallimenti vengono gestiti, non fanno danni, ma anzi generano apprendimento.

Intelligenza Artificiale

La prossima sfida di Page e Brin si chiama Intelligenza Artificiale. Gli algoritmi di machine learning sono già utilizzati in centinaia di servizi: nel riconoscimento vocale, nel traduttore simultaneo, nel direzionamento attraverso il traffico in Google Maps, nei sistemi di guida autonoma di Waymo, nei sottotitoli dei video di YouTube e potremmo continuare. E le possibili applicazioni future sono praticamente infinite.

Matteo Gorini

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