Wealth Management, cambiamenti profondi dopo anni di boom

Giovanni Viani partner di Oliver Wyman ci parla di Wealth Management.

A che punto si trova l’industria del wealth management a livello globale?

«L’industria globale del wealth management è reduce da anni di crescita vivace delle masse gestite (+8% globale dal 2016 al 2020, +12,5% nel 2021), incremento determinato, sia da nuovi flussi di ricchezza che sono passati in gestione, sia dall’apprezzamento dei corsi. In questo periodo, le condizioni di mercato benigne hanno nascosto una progressiva, ma sostanziale, riduzione dei margini (revenue margin -19% a livello globale, da 94 a 76 bp), a causa, sia del diffondersi di prodotti passivi, sia di una concorrenza più accesa. Di conseguenza, l’industria nel suo complesso è rimasta su livelli di produttività, rappresentata dal rapporto tra costi e ricavi, o cost/income, relativamente bassa, intorno al 70%: consideriamo che l’industria bancaria gira su cost/income del 50-55%. Nel 2022, come ormai sappiamo, il cumularsi del post-Covid, delle strozzature alle value chain globali, del conflitto in Ucraina e della rapida crescita dei costi dell’energia, in particolare in Europa, ha portato a un rapido innalzamento dell’inflazione e a un conseguente rialzo dei tassi di mercato. Ne è scaturito un marcato ritracciamento di tutte le asset class, con un impatto significativo sul valore delle masse gestite e sui ricavi degli operatori. Ciò porterà una riduzione importante dei margini economici, stante il livello elevato del rapporto cost/income dell’industria».

Quali saranno le conseguenze di tutto ciò?

«In prospettiva, ci aspettiamo per i prossimi quattro anni una ripresa delle masse complessivamente gestite, seppure con tassi di crescita più moderati. L’incremento che stimiamo per i volumi di ricchezza delle famiglie nel periodo ‘21-’26 si colloca tra il 3% dell’Europa e il 5,5% dell’area Asia-Pacifico, e sconta una decrescita marginale, più sostanziale nei financial asset under management, nel 2022. In termini di composizione per segmenti, prevediamo un ulteriore moderato shift dei ricavi verso il segmento low-Hnwi (1-5 milioni di dollari), che rappresenterà il 40% delle masse complessive e il 58% dei ricavi, seguito dagli Hnwi (5-50 milioni), con circa il 30% dei ricavi e delle masse, e  Uhnwi (>50 milioni) con il 15% dei ricavi e il 30% delle masse. In conclusione, un’industria che andrà sotto pressione a partire dal 2022, a valle di un lungo periodo di benessere».

E in Italia?

«Nel nostro paese vediamo flussi netti di risparmio ancora positivi, ma, come ovunque, un forte impatto negativo derivante dall’andamento di tutte le asset class. In prospettiva, l’inflazione comincerà a farsi sentire sulle capacità di risparmio delle fasce di clientela con minori possibilità reddituali, mentre il mercato del private banking soffrirà meno a livello di flussi. Per gli operatori si aggraverà il problema della redditività che abbiamo cominciato a vedere nel 2022, a causa di una lenta crescita delle masse, di costi rigidi e di marginalità in compressione». 

Oliver Wyman pubblica annualmente un report sullo stato dell’industria; quali sono le principali novità che emergono dal vostro ultimo lavoro?

«Ogni anno, in collaborazione con Morgan Stanley, pubblichiamo un report sullo stato e sulle prospettive dell’industria globale del wealth and asset management. Il report di quest’anno, dal titolo “Time to evolve”, oltre a tracciare un panorama dello stato e delle prospettive dell’industria, affronta il tema dell’evoluzione dei modelli di relazione con la clientela e dell’impatto della tecnologia sul settore. Con “Wealth management 3.0”, battezziamo un nuovo modello di business, che potrà rispondere alle forti evoluzioni che il mercato mostra. A fronte della citata pressione sulla marginalità e della struttura dei costi dei wealth manager, che finora si è dimostrata poco flessibile e adattabile ai trend di masse e margini e alle aspettative di crescita delle masse più moderata, il modello 3.0 prevede un’evoluzione facilitata dalla tecnologia verso approcci modulari, più personalizzati e maggiormente scalabili».

Qual è la differenza rispetto al modello attuale?

«Se il modello attuale in genere prevede ancora la centralità dell’advisor, eventualmente supportato nell’interazione con il cliente da canali e servizi digitali, il 3.0 contempla, oltre a questa opzione, soluzioni più flessibili, a partire da servizi “digital-led”, per seguire con opzioni “hybrid”, caratterizzate, ad esempio, da pool di advisor e specialisti accessibili in remoto. L’ampiezza delle possibilità di relazione permetterà diversi vantaggi, quali la capacità di servire segmenti e preferenze più ampi rispetto a oggi, una maggiore possibilità per i clienti di interagire con il servizio di volta in volta attraverso il canale più efficiente, un innalzamento della produttività e della qualità del servizio erogato, una maggiore scalabilità del modello al crescere del numero di clienti serviti e una più ampia capacità di veicolare l’offerta di prodotti specialistici, quali private market, hedge fund, Esg product, digital asset. I nuovi modelli “hybrid” si basano sulla considerazione che ormai, a causa dell’esperienza maturata nei recenti periodi di lockdown, tutte le fasce di clientela hanno ormai adottato modalità di interazione digitale. A livello globale, la percentuale di investitori private che utilizza anche canali digitali è passata dal 43% nel 2017 a più del 66% nel 2021. Pure nella categoria dei clienti private più senior (over 65), oltre il 40% usa anche canali digitali, spesso a supporto e integrazione della relazione con il proprio advisor. Ciò avviene per controllare il valore del portafoglio, per immettere ordini semplici, per aggiungere risorse al proprio portafoglio e per aggiornarsi su scenari e prospettive».

Inoltre, bisogna considerare anche le esigenze delle nuove generazioni. 

«Non dimentichiamo, infatti, che quella dei baby boomer, detentrice della maggior parte della ricchezza italiana, sta invecchiando e le nuove generazioni, che nei prossimi anni erediteranno tali disponibilità, sono abituate a interazioni profondamente diverse, digitali, multicanale e self. Bisogna farsi trovare pronti all’appuntamento, con adeguate infrastrutture tecnologiche e digitali, che abilitino servizi efficienti e semplici da usare per le attività più rutinarie e a basso contenuto di “advice”. In questo contesto, resta centrale il ruolo dell’advisor nei momenti di definizione dei bisogni e delle strategie di investimento, nell’allocazione complessiva della ricchezza tra asset class e nella gestione dei momenti di cambiamento di scenari, aspettative e bisogni».

Sono quindi prevedibili forti investimenti in infrastrutture?

«Naturalmente, la realizzazione di modelli più avanzati, flessibili e modulari, sottende un significativo investimento in infrastrutture digitali. Ciò porterà la semplificazione e la digitalizzazione dei “customer journey” più frequenti, l’automazione dei principali processi di investimento/disinvestimento, la possibilità di eseguire transazioni elementari in self, la fornitura tempestiva di informazioni, analisi  e servizi a valore aggiunto alla clientela, e la facoltà per gli advisor di interagire con gli investitori in remoto, di cooperare su processi di sottoscrizione, investimento e disinvestimento digitali, di condividere sempre in remoto informazioni e analisi. Tutte queste funzionalità presuppongono tecnologie moderne, modulari e spesso con soluzioni in outsourcing presso specialisti. Le nostre stime indicano che la trasformazione richiede un monte investimenti molto importante, che può variare tra il 6% e l’8% dei ricavi per un ciclo triennale. La sfida è fondamentale e, in un mercato ancora significativamente frammentato come quello italiano, solleva interrogativi importanti su un gran numero di operatori che non saranno in grado di sostenere questo cambiamento».

È stata annunciata la nascita di Credem-Euromobiliare Private Banking. Come interpretare questa decisione alla luce delle vostre evidenze?

«Lo scenario che abbiamo descritto evidenzia che un cambiamento strutturale dell’industria è attualmente in corso: le crescite delle masse degli ultimi cinque anni difficilmente si ripeteranno, i margini sugli Aum si sono ridotti e non sarà facile vederli riprendere, mentre le strutture di costo sono ancora allineate a uno scenario di mercato “benigno”. Inoltre, le attese dei clienti continuano a evolvere, in termini di modalità di accesso (a livello globale due terzi degli investitori private hanno usato canali digitali nel 2021), di livello di servizio (nel mondo il 70% dei clienti dichiara di cercare una maggiore personalizzazione) e di offerta (domanda di nuove opportunità come di prodotti, quali Esg, private market, alternative/hedge, digital asset). In questo contesto la scelta del Gruppo Credem di integrare le due reti private sotto un unico brand e in un’unica organizzazione va nella giusta direzione, in quanto permetterà alla nuova realtà di disporre di maggiori economie di scala e quindi di capacità d’investimento. Il futuro nel wealth management sarà sempre più caratterizzato da pochi gruppi in grado di crescere e di sostenere gli investimenti necessari a fornire un servizio di elevata qualità a diverse tipologie di clienti private, rispetto a una maggioranza di piccoli operatori la cui scala non permetterà di affrontare i cambiamenti necessari. La nuova realtà si colloca con decisione nel primo gruppo e rappresenta una grande opportunità, sia per i professionisti che vi operano, che potranno beneficiare di investimenti che accresceranno la loro capacità di offrire un servizio di eccellenza ai propri clienti, sia per i clienti finali».

Pinuccia Parini

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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