Il futuro non è più quello di una volta

Stéphane Vacher, Responsabile Comunicazione Private Gruppo Credem

Quante volte abbiamo letto o sentito l’affermazione un po’ apocalittica “il mondo non sarà mai più quello di prima?”. Probabilmente mossi da una volontà di protagonismo che ci spinge a volere vivere periodi storici determinanti, spesso interpretiamo gli eventi con troppa enfasi o perlomeno con il naso troppo incollato all’attualità e prendiamo lucciole per lanterne. Per ben cinque volte negli ultimi 30 anni è stata decretata “la fine del mondo come lo conoscevamo”: la caduta del muro di Berlino e la “fine della storia”, come affermava Fukuyama all’inizio degli anni ’90, poi l’attentato alle Torri gemelle, il sorpasso (avvenuto o in arrivo, a seconda dell’indicatore scelto) della Cina sugli Stati Uniti, la crisi della cosiddetta “finanza creativa” e la conseguente violenta recessione del 2008 e, infine, esempio tristemente recente, l’emergenza sanitaria Covid.

E puntualmente la realtà, che ama vendicarsi, ha quanto meno ridimensionato la drammaticità dei nostri pensieri. “Eppur si muove!” sospirava lo sconsolato Galilei, “Eppure continua a girare” potremmo esclamare cinicamente oggi, alla luce di un mondo che, pur nei suoi momenti più travagliati, ha sempre saputo assorbire l’onda d’urto di eventi traumatici. La storia non è finita con la scomparsa del blocco sovietico, tutt’al più si sono ricomposti blocchi diversi e riattivate altre guerre fredde, la minaccia terroristica continua a minare le nostre serenità, i nuovi equilibri macroeconomici sono più complessi e il mondo della finanza non tollera più certi comportamenti che hanno portato alla crisi dei subprime. Ma il pianeta ha continuato a girare, l’economia mondiale a crescere, le aziende (quelle buone) a produrre utili, i risparmiatori (quelli ben consigliati) a estrarre valore dai mercati. Mi lancio in una previsione che non c’entra niente con l’immunologia e la virologia: ci sarà un mondo anche dopo il Covid.

E allora perché dedicare il numero uno del nostro neonato magazine al tema della “disruptive innovation”, ovvero dell’innovazione dirompente, termine coniato nel 1995 da Clayton Christensen per fotografare ciò che stava avvenendo nel mondo delle imprese: qualcosa in grado di distruggere aziende consolidate a favore di realtà emergenti? Perché probabilmente, come cercherò di illustrare, abbiamo a che fare con un fenomeno che la storia non archivierà come uno dei tanti avvenimenti passeggeri. Ma si tratta senza dubbio di un cambiamento di paradigma. Per la profondità dei settori impattati, per la radicalità delle conseguenze che provoca e per la velocità di diffusione dei suoi effetti.

Partiamo dalla profondità: i mutamenti ai quali assistiamo non riguardano un singolo settore di attività, una particolare area geografica o una parte ristretta dei nostri stili di vita. A colpire è che sono contemporaneamente toccati tutti i rami dell’attività produttiva, nel mondo intero, e che un ampio spettro delle nostre vite quotidiane viene impattato. Facciamo alcuni esempi, volutamente semplicistici. Chi avrebbe mai detto che le nostre auto sarebbero andate avanti senza carburante (Volvo, per citarne una, ha dichiarato che tra 10 anni produrrà soltanto auto elettriche) e magari anche senza conducente (il titolo Tesla, azienda che le fabbrica, valeva meno di 80 dollari un anno fa, all’8 dicembre 649,80). Chi poteva immaginare che la sindaca di Parigi avrebbe fatto di tutto per eliminare le auto dalla Ville Lumière a beneficio di monopattini elettrici? Chi poteva prevedere che avremmo eliminato dalle nostre case i lettori dei Dvd appena spacchettati (povera Blockbuster, da leader di mercato dell’home entertainment al Chapter 11 dei fallimenti in pochi anni)? E chi pensava che la più grande compagnia di taxi al mondo non possedesse neppure una macchina (Uber) e che la più importante catena per pernottamenti fuori casa non sarebbe stata proprietaria di una singola (o doppia…) camera d’albergo (Airbnb)? Non c’è dubbio: la disruptive innovation che stiamo attraversando non risparmierà alcun settore di attività. E non farà prigionieri.

Passiamo alla radicalità del fenomeno. Eravamo abituati a cicli economico-produttivi basati sulla relativa indipendenza di un settore rispetto all’altro (ciò che succedeva nel mondo della siderurgia era quasi del tutto indifferente a chi operava nella logistica o nei beni del lusso, ad esempio) e ad arene di competizione molto stabili: le aziende di ogni settore nella top 5 di categoria erano più o meno sempre le stesse. Ci dobbiamo abituare a convivere in un mondo di interconnessioni e correlazioni molto più accese: basta un battito di farfalla dell’economia indiana e immediatamente si ripercuote fino alle previsioni di crescita delle miniere di diamanti in Sudafrica. Questo fattore ha un impatto molto rilevante per chi fa il nostro mestiere: le vecchie mappe di correlazione settoriale di una volta, per cui il ribasso di un settore aveva come corollario il rialzo quasi automatico di un altro, sono del tutto scadute e non più valide nel mondo interdipendente di oggi.

Infine, la velocità. Il tempo accelera. Non per una questione di fisica quantistica, ma è facile notare che alcuni processi di evoluzione e mutamento che, una volta, avrebbero impiegato un’intera generazione per diventare effettivi, si sono ormai drasticamente accorciati. Mia nonna convocava riunioni di famiglia su Zoom questa estate e io ero ben felice di poterci partecipare da casa, perché l’azienda per la quale lavoro è riuscita a gestire la rivoluzione dello smart working in poche settimane. Così come basta una notizia negativa su una società veicolata attraverso sistemi di messaggistica istantanea e/o social network per fare cambiare rotta all’impresa “sotto attacco” in poche ore (su tutti, citiamo il caso del gruppo alimentare costretto a ritirare le sue pubblicità giudicate poco inclusive il giorno dopo la comparsa in rete di un movimento di contestazione e boicottaggio crescente). Non ci tocca, né ci compete, giudicare la bontà dei fenomeni in atto. Lasciamo che sia la storia a farlo. Premesso che ne abbia ancora il tempo. A noi, invece, il dovere di analizzare quanto sta succedendo per capirne le implicazioni sul mondo del risparmio e degli investimenti. Quali sono le nuove minacce e opportunità che un tale contesto nasconde per i nostri portafogli? Come reagire, con metodo, a un mondo che richiede occhiali nuovi? Il numero 1 di Be Private cercherà di porre le prime basi di una riflessione sul tema. Considerazioni necessariamente temporanee e senza tutte le risposte che un’epoca così complessa come la nostra meriterebbe. Se questa iniziativa vi incuriosirà, provocherà una riflessione in più e la voglia di discuterne con chi ha la responsabilità di gestire i vostri risparmi, per noi l’obiettivo sarà stato raggiunto. Perché pensiamo che a volte le domande sono più importanti di certe risposte. E soprattutto perché riteniamo che soltanto da scelte consapevoli possono nascere relazioni durature. È il tipo di rapporto che abbiamo l’ambizione di costruire con ciascuno di voi. Il futuro non è più quello di una volta. Ma (forse) è una buona notizia.

Stéphane Vacher

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