Mai sottovalutare la continuità futura

Si sente parlare spesso di passaggio generazionale e di quanto, soprattutto per un tessuto imprenditoriale come quello italiano, sia una fase delicata, che va affrontata con consapevolezza e cognizione di causa. Tuttavia, non così frequentemente ci si sofferma sull’importanza di accertare che i rapporti all’interno di una famiglia possano permettere la continuità, prima di assumere qualsiasi altra decisione. Ciò è quanto sostiene Emanuele Sacerdote, founder di Soulside, società di consulenza strategica «specializzata nella fortificazione della gestione prestrategica e strategica mirata al conseguimento della crescita, della continuità e della longevità all’impresa».

Il passaggio generazionale è un tema sempre più rilevante per il capitalismo familiare italiano. A suo parere quali sono i motivi principali?

«La rilevanza è data dalla struttura del nostro sistema imprenditoriale e dalla grande densità di imprese familiari. La famiglia e l’impresa diventano il binomio “strategico” sul quale è stato edificato il sistema Italia. Ne consegue che la continuità delle società all’interno del perimetro familiare è il fattore determinante per proseguire, perdurare e tutelare il valore patrimoniale dell’azienda, ma anche del macro-ecosistema. A questo elemento costituente, però, deve corrispondere un senso pratico di trasmissione e di successione della proprietà. Questo è il momento decisivo per avvalorare il senso di responsabilità dell’impresa familiare».

Che cosa bisognerebbe fare per aumentare questo senso di responsabilità?

«La maggior parte delle realtà familiari è di nuova costituzione ed è alla prima generazione. La massima concentrazione e attenzione è data al consolidamento e all’espansione del business. A volte, l’attenzione per la continuità futura è sottovalutata, sia per le priorità strategiche e operative, sia per una sottovalutazione dell’impatto della non-gestione del prossimo futuro. Questo secondo elemento può diventare un azzardo rischioso da affrontare senza la dovuta progettazione. Ecco perché ritengo che bisognerebbe trattare il passaggio generazionale come un rischio strategico. Aggiungerei un elemento importante. In particolare, la prossima generazione ha un obbligo naturale, un diritto acquisito, dato dall’essere gli eredi legittimi. Quest’obbligo non è solamente un privilegio e un prestigio: principalmente è il dovere di mettersi al servizio dell’impresa e diventare parte proattiva del destino imprenditoriale. Assumere pienamente questo compito è il primo varco da contemplare». 

Ciò significa che l’impresa familiare non considera il passaggio generazionale un rischio reale?

«A volte è così! Se osserviamo la situazione da una prospettiva diversa, si potrebbe affermare che esiste, di fatto, un rischio di discontinuità generazionale. Come tutti i rischi reali dovrebbe essere coperto e assicurato. E la migliore assicurazione è introdurre e definire un progetto di transizione intra-generazionale e di successione che possano garantire il trasferimento, il controllo e la continuità della proprietà ai futuri eredi». 

Quali sono le conseguenze di quanto appena descritto?

«In estrema sintesi, direi il caos gestionale. Se immaginiamo un’impresa familiare di prima generazione, solitamente troviamo un sistema di governance concentrato sul fondatore, il dominus incontrastato e reggente. È un abile governatore e gestore che ha edificato la ventura imprenditoriale, spesso a sua immagine e somiglianza. L’azienda in molti casi è come un figlio. Se per qualche motivo questo sistema di comando venisse meno, la società rischierebbe il caos. L’interruzione gestionale causerebbe un aumento delle incertezze e un vuoto nel processo decisionale, sia negli eredi, sia nell’amministrazione ordinaria, con la dilatazione dei tempi di reazione e la probabile erosione del valore. Ristabilire lo status quo, il controllo e il comando necessiterebbe di tempo e di un nuovo equilibrio. Sempre che i nuovi eredi abbiano le competenze, l’intenzione e il coraggio per affrontare la nuova sfida».

Come si affronta quindi questo rischio strategico di discontinuità generazionale?

«Queste minacce di divergenza, di disgregazione o di frammentazione dell’attuale status quo si dovrebbero compensare con un “buon governo” proattivo e responsabile che preservi la governabilità e la direzionalità. Il principio sovrano è preservare e mantenere l’affetto, l’unione, la leadership e il consenso di lungo periodo all’interno della famiglia imprenditoriale. Solo in questo modo si riesce a tutelare e proteggere il patrimonio e il valore consolidato dell’impresa. Il vero super-rischio è l’amplificazione delle insoddisfazioni, delle distanze, dei conflitti e della litigiosità tra erede e familiare». 

Quindi, in pratica il “buon governo” deve gestire la successione?

«Esattamente. Il mio punto di vista è che, però, la costruzione delle strutture di controllo, dei veicoli di protezione, degli accordi e della governance dovrebbe essere successiva all’accertamento delle buone condizioni esistenti ambientali ed esistenziali di continuità. Se per qualsivoglia motivo le prossime generazioni non fossero interessate, competenti, preparate all’assunzione di responsabilità del carico imprenditoriale ci si troverebbe di fronte a un problema di difficile risoluzione che genererebbe ulteriore caos. Quindi, prima di costruire l’edificio legale e fiscale, bisogna appurare che sussistano sufficienti e stabili requisiti ambientali ed esistenziali per proseguire la ventura familiare. La casistica ci insegna che questa verifica è la parte più complicata, ma anche quella più importante per costruire un passaggio e una successione di successo. L’elemento ampiamente sottovalutato è la componente del quoziente affettivo che viene dato per scontato, ma che nella realtà è il punto che pregiudica tutto il progetto. Per esempio, il passaggio dalla seconda alla terza generazione è il varco più rischioso. La prima e la seconda sono costituite da parenti stretti: padre, figli e poi fratelli e sorelle. La terza è quella dei cugini e la distanza affettiva aumenta e si dilata». 

Come si possono comprendere questi fattori decisamente più emotivi e sentimentali?

«Il primo varco è che i membri della famiglia siano coscienti e consapevoli di questi rischi e che ritengano necessario esaminarli. Senza un’accettazione individuale e collettiva di questi aspetti è impossibile affrontarli. In pratica, bisogna comunicare e confrontarsi, ascoltando e osservando con la prua rivolta al bene dell’impresa e della famiglia. Qui il supporto che si può dare consiste nello stimolare il realismo e l’assertività. I punti critici da esaminare sono le dinamiche relazionali e valoriali; la storia del processo decisionale e della dimensione affettiva; il perimetro attitudinale, familiare e aziendale; la varianza di pregiudizio, i vincoli, le resistenze e i dilemmi; le prevalenti asimmetrie informative e cognitive. Ne consegue che sarà più facile evidenziare le differenze, le esigenze, le opportunità e le debolezze».

Basta questa fase di accettazione?

«Assolutamente no. Il secondo varco consiste nell’identificare le premesse progettuali di lungo periodo costruendo un ragionamento per maturare il consenso, la responsabilità e l’azione. In questa fase bisogna razionalizzare le migliori probabilità e le adeguate alternative per continuare con brio, determinazione e lungimiranza. Il supporto che si può offrire consiste principalmente in tre elementi: nel trovare le vocazioni pulsanti e le traiettorie di cambiamento; nell’identificare i punti di convergenza della visione di lungo periodo; nel mappare le diverse opzioni e ipotesi percorribili e più essenziali. Tutto sommato, solo delimitando le condizioni ambientali ed elencando le premesse di continuità si può agire in un’ottica di “buon governo” e ridurre la probabilità di discontinuità generazionale assumendo scelte programmate, più consapevoli e più condivise. Questo primo impianto diventa quindi il tassello per poi affrontare le decisioni sulle strutture legali, i veicoli societari e gli accordi intra-familiari. Farlo prima potrebbe mettere a rischio il buon esito e inficiare il futuro della ventura familiare». 

Quindi, secondo lei, affetto, unione e leadership sono gli elementi principali del “buon governo”?

«Direi che sono gli elementi essenziali senza i quali è più arduo sfidare il tempo futuro dell’impresa familiare. Ciò che ho imparato dalle aziende storiche di famiglia è che durano perché c’è una vivida sostanza di questi elementi. La prima domanda che faccio all’imprenditore reggente è: “La sua intenzione è tenere l’azienda nella compagine familiare?” Se la risposta è affermativa, allora questi elementi sono necessari e sono le prerogative per continuare; in un secondo tempo bisogna capire come intende farlo. Se la risposta è diversa bisogna pensare ad altre opzioni. La realtà della continuità temporale (passato, presente e futuro) si riferisce al destino e al ciclo di vita della società e della famiglia che, come sappiamo, non sono lineari. Robustezza, stabilità, durabilità e vitalità sono gli assunti da conservare nel tempo e il passaggio generazionale e la successione potrebbero essere la copertura assicurativa più adeguata a provare a plasmare il destino affrontando le varie sfide e cogliendo le migliori opportunità».

Quali sono gli altri temi di governance per affrontare il destino dell’impresa di famiglia? 

«Tralasciando gli aspetti meramente correlati alla singola realtà e alla gestione esecutiva del business, direi che il tema principale ruota sempre intorno alla leadership e alla co-leadership. Quindi, la redistribuzione delle deleghe, delle responsabilità e degli impegni è il primo terreno di confronto intra-familiare. Ne consegue che il processo decisionale, la managerializzazione dell’organizzazione, l’efficacia del gruppo di comando e il controllo della direzione di lungo periodo diventano gli aspetti di maggiore confronto e dibattito. Però, i veri temi super-caldi sono il capo-azienda esterno alla famiglia e l’ingresso di nuovi capitali privati. Onestamente, il vero terreno di discussione dovrebbe essere il ruolo della famiglia nella gestione dell’impresa. L’ erede ha quattro opzioni: fare il dipendente, il manager, il consigliere d’amministrazione e il socio. A parte l’ultimo ruolo, che è sempre presente, gli altri richiedono un’assunzione di piena responsabilità in relazione alle competenze, alle capacità, ma anche agli spazi disponibili e alle necessità dell’impresa. Se mettiamo tutto insieme, il “buon governo” dovrebbe sapere proiettare ed eseguire una governance lungimirante per potere garantire un destino migliore. Ma bisogna essere tutti d’accordo». 

Pinuccia Parini

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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