Quando il capitale deve essere paziente

Intervista a Giovanni Tamburi, presidente e amministratore delegato di Tamburi Investment Partners Spa (Tip).

Che cosa si intende quando si parla di capitale paziente?

«Si intende un capitale fornito a un’impresa che può servire per accompagnare e solidificare una sana strategia di medio o, meglio ancora, di lungo termine».

Nei confronti di chi il capitale deve essere paziente?

«Delle aziende. Sono sempre loro che vanno messe al centro delle attenzioni di noi tutti stakeholder. Guai a privilegiare i soci, peggio ancora se i soci, come alcuni fondi di private equity, mettono pressione per ottenere risultati di breve che sacrificano le strategie e le politiche di medio e lungo termine. Specie di questi tempi nei quali, con gli effetti stravolgenti della pandemia e l’evoluzione verso il digitale, la sostenibilità e le necessità di aggregazione devono fare privilegiare gli investimenti in queste tematiche rispetto a tutto il resto».

 Con quale funzioni?

«Con la funzione di dare a ogni azienda in cui si investe un orizzonte temporale adeguatamente ampio per potere scaricare a terra gli investimenti strategici, le politiche di penetrazione sui mercati basate su visioni di lungo termine e tutto ciò che può determinare una crescita di valore solida, duratura, strutturale. Perciò, ad esempio, non è quasi mai capitale paziente quello che si accompagna a operazioni con una leva finanziaria spinta, se non altro perchè, se i cash flow aziendali devono essere in buona parte dedicati al rimborso del debito, il futuro dell’impresa rischia di essere compromesso».    

Quali sono le tipologie di investimento che rientrano all’interno dalla definizione di capitale paziente?

«Le tipologie di investimento che rientrano in questa funzione sono quelle che vengono affrancate dal mero interesse dell’investitore. E ancora di più se sono slegate da concetti come come l’Irr (Internal rate of return), che fatalmente spingono le aziende a privilegiare l’arricchimento dei partner dell’investitore, con un ragionamento profondamente diverso rispetto a coloro che, invece, lasciano veramente libera un’impresa nel cercare di porre le basi più solide possibile per una crescita del valore nel tempo. La solidità non deve, salvo sorprese o fatti veramente imprevedibili, essere scalfita più di tanto dal normale evolversi dei mercati».

Durante questi due anni di pandemia, quanto è stato importante il ruolo del capitale paziente?

«Mah, di capitale veramente paziente ce n’è poco, specie in Italia: non ha molto senso provare a estrarre  delle regole o dei veri trend. Di certo, molti fondi hanno dovuto allungare i periodi di investimento per tenere conto dei due anni quasi totalmente persi per le difficoltà generate dalla pandemia. Per contro, è ben noto che i valori delle aziende, dopo i primi mesi di disorientamento generale, sono quasi costantemente cresciuti: di conseguenza, alle difficoltà generate dal Covid ha corrisposto un tale aumento delle valutazioni che ha sanato tutto o quasi tutto. Adesso però siamo alle prese con gli eventi in Ucraina, che rischiano di allungare ulteriormente il periodo in cui è meno facile disinvestire: da settimane i prezzi dei titoli scendono e quella compensazione non c’è più».

E in un contesto economico come quello italiano, quanto peso dovrebbe avere?

«Molto superiore a quello che si vede sui mercati. La stragrande maggioranza di investitori nel mondo del private equity è costituita da fondi, che per definizione, statuto, regole di base, abitudini dei partner e dei loro collaboratori, sono obbligati a non prolungare troppo nel tempo il periodo di mantenimento in portafoglio dei singoli investimenti, perché ne subiscono un danno diretto».

Dal punto di vista di un investitore, come si declina “la pazienza”?

«Semplicemente evitando che le retribuzioni di chi gestisce la società investitrice non siano basate su formule che privilegiano i tempi brevi. E facendo in modo che i sottoscrittori dei fondi, istituzionali, family office o altri, non siano ingolositi da ritorni in tempi oggettivamente incompatibili con una crescita di valore solida e patrimonialmente sostenibile».   

Qual è la relazione tra aziende di famiglia e capitale paziente?

«Le famiglie di base guardano al lungo termine e dovrebbero essere le prime ad aprire le porte al capitale paziente. Ovviamente, dietro a una simile apertura deve esserci una filosofia moderna, non il tipico atteggiamento un po’ chiuso degli imprenditori italiani che preferiscono avere il 100% di un bene più piccolo, piuttosto che una fetta di una torta più grande. E ci sono tanti segnali positivi in questo senso. Anche perché è logico che chi ragiona in questo modo ha certamente più chance di fare restare la propria azienda tra i protagonisti del futuro».     

Capitale paziente in un’epoca di digitalizzazione sempre più avanzata. C’è una contraddizione di fondo?

«Assolutamente no! Anzi! Digitalizzare vuole dire investire, investire significa avere capitali a disposizione in più rispetto a quelli che una normale azienda deve avere per investire in macchinari, uomini, stabilimenti, tecnologie. Anche di capitale circolante ce n’è sempre più bisogno proprio se si cresce. Cosa di meglio dei capitali pazienti che possano essere al servizio di programmi di digitalizzazione?». 

Pinuccia Parini

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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