Tanto Esg anche a Piazza Affari
«Il tema della sostenibilità è al centro di ogni strategia di investimento ed è ciò che gli investitori finali stanno guardando con attenzione». Con queste parole, Alberto Chiandetti, portfolio manager presso Fidelity International e gestore del fondo Ff Italy Fund, introduce il tema Esg legato al mercato italiano.
Abbiamo veramente capito che cos’è la sostenibilità?
«La sostenibilità è integrare all’interno della propria analisi dell’investimento parametri che, in precedenza, non erano considerati finanziari ed economici, neppure strategici. Dalle tematiche più disparate, che vanno dall’ambito sociale, come l’utilizzo del lavoro minorile, all’ambiente, come l’inquinamento di siti produttivi, i principi Esg sono ormai diventati oggetto di analisi economica e finanziaria. Innanzitutto perché il regolatore vuole che sia così, in secondo luogo perché, se una società non presta la dovuta attenzione a questi criteri, si ritroverà in un circolo vizioso dove un intervento normativo la spingerà in questa direzione, pena una multa che avrà un impatto sul conto economico aziendale e che porterà gli investitori a rivedere le proprie posizioni in quell’azienda: le tematiche finanziarie e quelle Esg non possono essere più considerate due mondi separati. Inoltre, non bisogna ignorare che queste ultime sono diventate parte di una cultura condivisa, che stanno al centro delle stesse scelte politiche. Ciò che i gestori stanno facendo, nell’adottare i criteri di sostenibilità nelle decisioni di investimento, è semplicemente anticipare ciò che diventerà una prassi standard allargata a tutti i settori».
L’inadempienza a prassi di sostenibilità rischia quindi di toccare direttamente il conto economico di un’azienda
«Penso di sì e gli esempi sono diversi. Oggi, l’emissione di CO2 comporta già un costo effettivo per chi ha bisogno di comperare le quote (si tratta del sistema europeo di scambio di quote di emissione adottato dall’Ue, in attuazione del Protocollo di Kyoto, per ridurre le emissioni di gas a effetto serra nei principali settori industriali e nel comparto dell’aviazione – Ets scheme). Nel prossimo futuro, è probabile che il regolatore diventi più incisivo nelle richieste e pretenda, dalle singole imprese, veri e propri target di decarbonizzazione, anche qualora il loro business non rientrasse nell’Ets scheme. Viviamo in un mondo dove le notizie circolano in modo massivo e pervasivo, tanto da riuscire ad aggregare il consenso su ampia scala in tempi relativamente ristretti. Se un’impresa che opera nel settore dei beni di consumo ha comportamenti considerati non accettabili, nonostante ciò non si traduca immediatamente in un’ammenda, saranno i consumatori a penalizzarla non comprandone i prodotti».
Ma parlare di Esg per le aziende non significa parlare solo dei rischi in cui possono incorrere; è corretto?
«Certamente, perché i processi legati alla sostenibilità offrono alle società opportunità da cogliere: le imprese investono e creano nuove tecnologie di decarbonizzazione, riuscendo così a innovarsi, o, grazie alle capacità di promuovere le proprie iniziative su tematiche social-environmental, ottengono maggiore seguito. Un esempio concreto sono gli snack organici, sino a non molti anni fa inesistenti sul mercato. Sono un risultato pratico di un recepimento dei principi Esg ante litteram? In parte sì, perché le persone pensano che mangiare meglio faccia parte di un agire personale, ma anche comune».
Questa nuova sensibilità come si traduce per l’investitore finale?
«Si tratta di integrarla all’interno di un mix di portafoglio, dove il risparmiatore dovrà decidere quali categorie di prodotti inserire: se articolo 6, 8 o 9 in base alla normativa Sfdr, in cui i fondi art. 9 sono definiti “fondi a impatto”, cioè hanno nel mandato un preciso obiettivo legato a una delle tematiche E, S o G».
Come struttura Fidelity l’integrazione dei criteri Esg nelle scelte di investimento?
«Noi abbiamo una ricerca interna proprietaria: facciamo analisi Esg e questa è svolta principalmente dall’analista. Egli propone l’idea di investimento, ma la decisione finale è del portfolio manager. L’analisi di sostenibilità fa riferimento a parametri in divenire poco quantificabili (questo aspetto è però in miglioramento) e con un alto livello di soggettività, anche se la nuova regolamentazione europea dovrebbe sempre più mitigare questa difficoltà. Proprio per la necessità di gestire al meglio le informazioni e con piena consapevolezza, abbiamo deciso di adottare un processo interno. Ciò ci permette di fare un’analisi statica di come è l’azienda, ma, soprattutto, ed è ciò che molti fornitori di rating esterni non sono in grado di offrire, di avere una prospettiva sulla direzione di cambiamento anche grazie alle frequenti occasioni di engagement che si hanno con le aziende. Abbiamo al nostro interno anche un team Esg di coordinamento che aiuta a sviluppare sistemi e modalità di rating e assiste gli analisti nella raccolta di dati e informazioni. Il suo ruolo è importante, sia per la scelta del singolo titolo, sia per lo sviluppo di temi che toccano i settori e i mercati in generale. Lo scorso anno, su quest’ultimo aspetto, abbiamo analizzato i problemi sociali legati ai lavoratori marittimi, i cosiddetti stranded seafarer, che hanno subito gravi contraccolpi legati al Covid-19».
Di che osa si è trattato?
«Le restrizioni ai viaggi e al commercio stavano causando gravi ritardi alla rotazione ordinaria degli equipaggi delle navi mercantili tra le loro navi e i porti di origine. Centinaia di migliaia di operatori marittimi erano rimasti confinati a bordo per le rigorose misure anti Covid. Al culmine della crisi nel settembre 2020, oltre 400 mila persone erano bloccate in mare, molte delle quali senza un contratto. Questa situazione era diventata un problema per il settore della navigazione commerciale e una crisi umanitaria in arrivo per le centinaia di migliaia di marittimi, che sono il motore del commercio globale. Per proteggere le catene di approvvigionamento e la salute e la sicurezza dei marittimi, il team di investimento sostenibile di Fidelity e gli analisti di settore hanno lanciato l’allarme impegnandosi sulla questione attivamente con le società di cui si era azionisti. Sono stati contattati anche altri investitori per aderire all’iniziativa e nel dicembre 2020, un consorzio di investitori internazionali, guidato da Fidelity, ha chiesto un’azione urgente per porre fine a questa crisi umanitaria in una lettera aperta alle Nazioni Unite. A seguito di questa azione, il numero di marittimi bloccati in mare si è dimezzato a 200 mila dal settembre 2020».
Come avviene il processo di rating Esg?
«È un mondo in divenire in cui ci sono continui miglioramenti. Stiamo lanciando ormai la versione 2.0 del nostro rating interno, per essere più granulari nelle singole voci Esg e nelle sotto-voci, cercando di aggiungere sempre più oggettività, con dati numerici e quantificabili, frutto sia di ricerca interna, sia esterna, e con l’utilizzo della tassonomia Ue. Tutto ciò serve per avere una base di numeri comparabili. Il primo livello Esg era costruito su una matrice di sostenibilità divisa in sei-sette punti, in cui il grado di soggettività del rating era ancora importante, soprattutto per come l’azienda si collocava all’interno del settore di appartenenza. Nel secondo livello (2.0) la matrice di materialità viene spezzettata in molti più sotto-settori, con diverse articolazioni che tengono in considerazione l’output, l’input, le ricadute sulla catena d’approvvigionamento o le diverse sostanze inquinanti. Il fine ultimo è raggiungere un rating assoluto che si basa su quanto l’azienda sia consapevole di un dato problema, quanto ciò porti a una mitigazione dei rischi e ad avere una capacità proattiva nel rispondere a una difficoltà».
Quali sono gli obblighi per un gestore come Fidelity?
«Noi abbiamo due obblighi. Il primo è agire come investitori in un’azienda e fare pressione con gli strumenti a disposizione per spingere il management a comportamenti più sostenibili. Ma poi dobbiamo essere anche noi, come Fidelity, a dimostrare che ciò che chiediamo alle imprese in cui investiamo sia da noi adottato come prassi comportamentale. A questo proposito, ci siamo dati un target di decarbonizzazione da raggiungere entro il 2040 e siamo stati tra i primi a firmare la Net Zero Investment Alliance. Ciò significa, a tendere, che arriveremo ad avere portafogli che sono allineati con i target dell’accordo di Parigi e questo obiettivo diventerà un “must” per tutti».
Le aziende italiane quotate sono ricettive in termini di sostenibilità?
«Le aziende italiane di grandi e medie dimensioni sono molto attive sui temi della sostenibilità, attente agli aggiornamenti e ai dati da fornire. Va ricordato che in Italia sono molte le imprese che redigono il bilancio di sostenibilità. Non riscontro, a parità di dimensioni, particolari differenze tra le società del nostro Paese e quelle estere. Dipende poi dalla singola azienda ma, in generale, sono tutte in un processo di inclusione, analisi e quantificazione del loro sforzo in materia di Esg. In alcuni casi, addirittura, ci sono fin troppe informazioni, una vera e propria indigestione di dati che bisogna sapere leggere e valutare. In qualità di asset manager, interveniamo attivamente nell’individuare eventuali carenze di target, che devono essere introdotti nella strategia delle imprese o nei piani di incentivazione del management. La reperibilità delle informazioni è buona e si articola all’interno di un processo in cui il regolatore, nel futuro prossimo, andrà anche dalle aziende stesse a chiedere di fornire più dati e che questi diventino standardizzati».
Questa sua considerazione vale anche per le piccole capitalizzazioni? Riescono, pur avendo pochi mezzi, a districarsi tra i diversi adempimenti?
«Più piccole sono le aziende, meno risorse hanno a disposizione per fornire informazioni, ma le tematiche Esg sono nella testa di tutti. Ci sono realtà da 150 milioni di euro di capitalizzazione di mercato che hanno iniziato a pubblicare dati e avere certificazioni, anche costose, pur di raggiungere livelli di chiarezza simili a quelli delle grandi e medie società. Poi ci sono imprese che sono più o meno proattive di altre, come succede in ogni parte del mondo. Forse, un aspetto su cui queste società si interrogano è se tutto ciò che fanno è sufficiente, se serve a raggiungere i loro obiettivi, visto che spesso sono subissate da richieste che implicano un significativo dispendio di energie, anche economiche. Ma siamo ancora in un periodo di transizione ed è lecito che vi siano ancora dubbi su quale sia il migliore e più efficace percorso da seguire. L’auspicio è che si vada sempre di più verso una standardizzazione dei dati necessari».
Crede che le società italiane siano consapevoli di questa transizione?
«Bisogna guardare alle singole situazioni. In media, come sottolineavo prima, c’è molto interesse e volontà di apertura, di cui va dato merito all’imprenditoria italiana. C’è la consapevolezza che, nonostante le dimensioni, integrare i criteri di sostenibilità nel proprio modello di business diventa una condicio sine qua non per rimanere nella catena di approvvigionamento: anche dove non interviene il regolatore, c’è l’azienda capofila che richiede che ciò avvenga. Indubbiamente ci sono fenomeni di green-social washing o di governance, ancora ancorati a strutture superate rispetto a ciò che il mercato sta chiedendo. Ma ciò avviene non solo in Italia, ma anche in Europa. Anzi, a questo proposito, ci tengo a sottolineare che, un settore molto importante per l’indice di borsa italiano, le utility, vanta i migliori esempi di pratiche Esg. La cosa potrebbe sorprendere, ma la presenza di entità pubbliche nell’azionariato di queste società in tale caso non solo non ha inciso negativamente, ma ha aiutato l’introduzione di buone pratiche nella gestione delle aziende».
Qual è l’impatto del Pnrr per la borsa italiana?
«L’impatto del Pnrr sul mercato italiano c’è già stato ed è avvenuto quando si è compreso che si stava materializzando e veniva gestito da un governo di ampie coalizioni, aspetto quest’ultimo che intendo sottolineare. Nel piano troviamo declinate le tre componenti Esg, ma l’elemento chiave che ne determinerà il successo è la governance che lo guida».
Perché parlare di governance per il Pnrr?
«Si sono ottenuti i finanziamenti e questi ultimi andranno, grazie anche alle riforme, a migliorare la capacità competitiva del Paese. Ciononostante, è basilare che la struttura che sta stendendo le regole del Piano proceda in tempi brevi e faccia in modo che le indicazioni, presenti nei decreti attuativi, siano chiare e comprensibili per le pubbliche amministrazioni che le recepiscono. In altre parole, si deve strutturare un meccanismo che, una volta realizzato, possa continuare a funzionare per inerzia, indipendentemente da quale governo sia in carica. Si è stimato che l’impatto del Pnrr sul Pil possa essere di circa 12 punti, in pratica due punti di domanda in più all’anno per sei anni, che potranno essere realizzati per inerzia, se si sarà lavorato bene a monte».