Una liquirizia che ha quasi 300 anni

«Una storia nella storia, una saga, quella degli Amarelli, iniziata intorno all’anno Mille e proseguita nei secoli fra Crociate, impegno intellettuale e agricoltura». Con queste parole l’azienda di famiglia presenta al pubblico una realtà durata nei secoli e che ha saputo dare prestigio al proprio nome. Amarelli è la fabbrica di liquirizia più importante d’Italia, con sede a Rossano in Calabria. La liquirizia, sin dall’antichità, era conosciuta come una pianta emolliente per la gola e per la voce e capace di regolare il processo digestivo, dalle proprietà benefiche antivirali. Amarelli è riuscita a trasformare questa radice in un’eccellenza, conosciuta anche a livello internazionale. Be Private ha incontrato Giuseppina Amarelli Mengano, presidente della Amarelli Srl, docente universitaria, avvocata e giornalista pubblicista. Annovera nel suo curriculum una serie di importanti incarichi all’interno di organizzazioni nazionali e internazionali di prestigio, oltre ad avere ricevuto importanti riconoscimenti, tra i quali il cavalierato del lavoro nel 2006.

Un’impresa che vive da quasi 300 anni. Come descriverebbe la storia di Amarelli?

«Ci sono tanti ingredienti che hanno contribuito a dare continuità alla nostra attività. Inizierei a parlare del nostro approccio che, pur evolvendo nel tempo, ci ha sempre visti attenti a due valori che sono particolarmente attuali: l’innovazione e la sostenibilità. Un’impresa non può continuare a esistere per quasi 300 anni senza innovarsi e senza avere cura degli impatti della propria attività sull’ambiente che la circonda. La nostra storia risale al 1731, prima della rivoluzione industriale, con un’azienda agricola che esisteva già nel ‘500. Abbiamo tuttora una peculiarità che ci distingue: lavoriamo le radici di liquirizia, quello che ai giorni nostri è definito un prodotto di scarto. Tutto nacque dalla necessità di gestire il latifondo di famiglia in maniera intensiva e non più estensiva. Questo passaggio portò a una cura più attenta del terreno dal quale, per facilitarne la coltivazione, si cominciarono a estrarre le radici di liquirizia presenti. Cominciammo così a scavare la terra per togliere queste piante, ma senza intaccare le proprietà del suolo, la cui qualità veniva migliorata affinché potesse essere lavorato. È un modus operandi che, nella sostanza, è ancora vigente. Solitamente utilizziamo campi liberi o adibiti a coltivazioni stagionali. La liquirizia richiede quattro o cinque anni per crescere, quindi si fanno rotazioni tra terreni, alternando le coltivazioni. L’estrazione della radice viene fatta d’inverno, quando è ammorbidita dalle piogge e rompendo solo lo strato esterno con piccoli trattori, per poi raccoglierla a mano per non romperla. Abbiamo sempre prestato attenzione all’ambiente, perché chi fa agricoltura l’ambiente non lo può violentare, altrimenti la natura si vendica. Nei processi di lavorazione, la generazione di energia avveniva prima usando fuoco diretto, utilizzando la legna raccolta nelle nostre proprietà in montagna, poi siamo passati alla sansa esausta dell’ulivo e oggi utilizziamo il metano, ma prestando molta attenzione al suo consumo. Anche nell’utilizzo dell’acqua siamo sempre stati molto oculati e, poiché nella lavorazione è necessario che raggiunga temperature elevate, riutilizziamo le acque reflue per riscaldare l’ambiente. Inoltre, tutto ciò che rimane dalla lavorazione delle radici, viene usato per rendere il terreno impermeabile e, attualmente, si stanno studiando nuovi utilizzi di queste biomasse. Siamo molto attenti all’analisi del prodotto».

L’approvvigionamento della liquirizia avviene solo sui vostri terreni?

«All’inizio era così, ma già dall’800, come è testimoniato da documenti del nostro archivio di interesse storico nazionale con atti che risalgono addirittura al 1400,  si trovano alcuni contratti fatti da un’antenata, Giuseppina Amarelli, che venivano stipulati con altri comuni vicini per assicurarsi le radici di liquirizia, visto che quella dei nostri terreni non era più sufficiente. Utilizziamo solo  radici locali perché, come attesta l’Enciclopedia britannica, la liquirizia calabrese è la migliore al mondo. Noi ci approvvigioniamo di quella che cresce sulla costa ionica, che va da Metaponto a oltre Crotone, per l’elevata qualità e abbondanza. È particolarmente equilibrata, con un giusto mix tra il dolce e l’amaro, grazie alla glicirrizina. I nostri fornitori sono tutti catalogati e di fiducia».

Come vi posizionate all’interno della filiera dei vostri prodotti?

«Abbiamo tutto il controllo della filiera, dalla produzione da parte nostra o da fornitori che hanno un contratto in esclusiva con noi, arrivando sino alla commercializzazione, in alcuni casi addirittura diretta, soprattutto nei punti vendita in negozi di lusso dalla Fifth Avenue di New York o i magazzini Lafayette di Parigi».

Come si fa a dare continuità a un’impresa per un così lungo arco temporale?

«Noi facciamo parte, tra le tante, di un’associazione che ha sede a Parigi, “Les Hénokiens”, che raccoglie le aziende che hanno oltre 200 anni vita e, al mondo, siamo solo in 50. Ciò dimostra che non è facile raggiungere questo risultato. Il segreto è una forma di educazione familiare e sapere coltivare il senso di appartenenza. Io faccio parte della undicesima generazione, l’attuale amministratore delegato della dodicesima ed è già pronta la tredicesima, un ragazzo che ha appena intrapreso il percorso universitario. In un’azienda familiare, dove c’è una tradizione, si cresce insieme in un’atmosfera in cui la famiglia e l’impresa sono due vasi comunicanti, dove si presta attenzione affinché troppo non venga dato all’una o all’altra. È quindi necessario un giusto equilibrio nell’amministrare. Occorre poi una forte educazione che passa attraverso i consigli di famiglia, che sono momenti informali conviviali che cementano le diverse generazioni presenti, e la consapevolezza del ruolo che si ricopre e che deve essere portato avanti. Un mix di fattori che permette la longevità dell’impresa. Si tratta di un patrimonio che non è strettamente economico, ma di cultura, e direi che va anche oltre, che si ha il dovere di trasmettere. È il patrimonio intangibile, che racchiude tutto ciò che è legato alla storia e alla tradizione di valori di cui una famiglia si è fatta portatrice. La nascita di diverse associazioni che raccolgono imprese familiari ha sicuramente aiutato ciascun appartenente a diventare più consapevole e pronto ad affrontare i cambiamenti. Un’azienda che dura nei secoli non solo deve fare innovazione da un punto di vista tecnologico, ma sotto qualsiasi angolatura e il brand deve essere valorizzato nel tempo, anche con la comunicazione, cosa che sino a cinquant’anni fa non esisteva quasi. Inoltre, queste associazioni sono occasioni per le imprese di famiglia per incontrarsi, condividere le esperienze e ideare nuovi modi per affrontare il futuro. I 290 anni della nostra azienda, insieme all’innovazione, hanno trovato nella comunicazione la capacità di raccontare la nostra storia e di tenerla viva».

La governance ha un ruolo importante nel rendere possibile la vostra continuità?

«Nella gestione della nostra attività, coniughiamo l’innovazione con la sostenibilità e quest’ultima non può che passare attraverso una solida governance. Io sono presidente onoraria e c’è già stato un passaggio generazionale all’interno dell’azienda, di cui l’amministratore delegato è mio nipote, attraverso un processo attento e articolato che si struttura negli anni. Ora mi occupo soprattutto del lato culturale della società, ma sono anche un punto di riferimento, colei che, con un occhio più distaccato dalla gestione quotidiana, supervisiona la nostra realtà nel suo insieme».

 

Essere un’impresa di famiglia e in alcuni casi di dimensioni contenute è un limite per il tessuto imprenditoriale italiano?

«Noi contribuiamo a quello zoccolo duro dell’economia italiana e abbiamo ricoperto un ruolo importante, soprattutto in questo periodo di crisi, mostrando la nostra resilienza. Le dimensioni, per quanto ridotte, hanno permesso alle imprese di navigare attraverso le difficoltà grazie alla prudenza di fondo che ne ha sempre caratterizzato l’azione. Forse non siamo un esempio da un punto di vista economico, ma sicuramente lo siamo da quello culturale. Molte di noi hanno archivi importanti, musei d’impresa, proprio per cercare di estrinsecare i nostri fondamenti e valori. Lavoriamo anche con le scuole, dove spieghiamo ai ragazzi che cosa significa fare impresa. È una restituzione che facciamo al territorio che ci ha dato tanto e agli stakeholder».

Che cosa vuole dire essere una donna imprenditrice di successo ed esserlo in Calabria?

«Paradossalmente, per me è stato un elemento vincente essere imprenditrice in Calabria. Io facevo tutt’altro e, per una serie di eventi familiari, mi sono trovata in azienda. Ho studiato giurisprudenza all’università, dove mi sono iscritta nel 1963, anno in cui le donne non potevano nemmeno diventare magistrate. Sono diventata assistente universitaria e poi anche avvocata. Sono cresciuta sin da bambina animata da uno spirito di indipendenza e con la consapevolezza che, se si hanno le competenze, non ci sono differenze tra uomo e donna. All’inizio, in azienda, mi occupavo soprattutto di comunicazione, diventando il volto esterno di Amarelli. Mio suocero, allora a capo dell’azienda e uomo di grande intuito, si rivolse a me e mi chiese di affiancarlo, perché capì che chi si occupa di comunicazione è la persona che conosce nel profondo l’impresa e ha gli strumenti per raccontarla e farla conoscere. Il mio percorso professionale è così continuato e nel 1986 mi sono trovata a capo di Amarelli. Devo dire, però, che essere una donna imprenditrice in Calabria, sicuramente in una situazione non comune in quegli anni e in quella regione, non è stato un ostacolo nello svolgere la mia professione: il fatto di costituire un elemento di novità ha sbaragliato le eventuali titubanze e perplessità sulla mia figura».

Come vede la situazione dell’Italia?

«Un elemento basilare per chi fa l’imprenditore è avere speranza nel futuro, uno spirito che mi ha sempre animata, altrimenti avrei fatto un lavoro diverso. Bisogna guardare avanti e con uno sguardo più lungo degli altri. Ciò fa sì che il mio animo sia sempre alimentato da una lettura positiva rispetto agli eventi che accadranno. I recenti dati del Pil italiano sono molto confortanti, ma la situazione occupazionale presenta ancora molte criticità e le dinamiche del mercato del lavoro soffrono ancora di una serie di inefficienze. L’auspicio è che la politica intervenga in modo da aprire il mercato, soprattutto ai giovani, con una forte attenzione alla qualità della mano d’opera. Il governo Draghi ha dato una svolta inaspettata e il Pnrr è un progetto di crescita e di sviluppo che giocherà un ruolo importante per il nostro Paese, non solo da un punto di vista produttivo, ma anche culturale. Tutto ciò fa ben sperare, anche se non nego che alcune incognite rimangono per il Sud dell’Italia, vista l’atavica carenza di infrastrutture. Io sono però convinta che senza il Sud il nostro paese non ripartirà e se l’Italia non ripartirà, anche l’Europa ne soffrirà. Guardando alle dinamiche internazionali in atto, è più che mai decisivo creare un blocco occidentale forte e l’Europa è uno degli attori che ne devono fare parte».

 

Pinuccia Parini

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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