Tradizione e innovazione

A colloquio con Piergiorgio Grossi, Chief Innovation Officer del Gruppo CREDEM

Piergiorgio Grossi è il Chief Innovation Officer del Gruppo CREDEM da poco più di due anni. Professionista conosciuto nel campo dell’innovazione digitale, in cui opera da circa vent’anni, ha lavorato per il team Ferrari di Formula 1 e per la Ducati, ma ha anche dato vita a diverse start-up come Impact Hub Reggio Emilia, dopo avere maturato esperienze nel campo dell’intelligenza artificiale e dei big data in Iconsulting.

Qual è il ruolo di un Innovation Officer in un Gruppo longevo, solido e di successo?

«Penso che CREDEM abbia deciso di coinvolgere una figura con il mio profilo professionale perché ha voluto velocizzare un percorso di cambiamento, all’interno del quale c’è la necessità di accelerare alcuni processi. Per farlo, ha scelto di affidare il compito a una persona che non viene dal mondo della finanza e forse, proprio per questo motivo, portatore di una cultura diversa. Il Gruppo vanta una storia di 120 anni, caratterizzati da una crescita solida e continua, ma ciò non significa non dovere considerare i mutamenti che stanno avvenendo sul mercato. Il mio ruolo è cercare di apportare alcuni ingredienti dell’innovazione per cambiare l’azienda e di farlo insieme alla Banca, in modo che questa forza propulsiva diventi parte del patrimonio del Gruppo».

è un compito arduo per una persona che non viene dal mondo della finanza?

«Nelle precedenti esperienze lavorative ho messo le mie competenze e la mia conoscenza a disposizione di società  che avevano bisogno di accelerare l’innovazione e in generale il processo di trasformazione digitale: gli ingredienti sono comunque comuni. Da un punto di vista  professionale ho visto gli albori dell’IoT (Internet of Things), dell’agile, del realtime analytics, dell’utilizzo dei big data, ovvero di tutta quella tecnologia che oggi è diventata una tendenza dominante. Non rinnego il mio spirito nerd, ma ho imparato a muovermi a stretto contatto con il business e mettendo il cliente al centro. Ho lavorato per un’azienda specializzata in datawarehouse, big data e intelligenza artificiale, da cui sono nate diverse start-up che sono state messe sul mercato come modello di innovazione. Quindi sì, non sono un uomo che appartiene al mondo della finanza, ma ho ricevuto un mandato da una banca, di elevata credibilità e con forte attenzione per il territorio e le persone, per fare innovazione e ho deciso di accettare perché penso di potere contribuire aggiungendo alcuni strumenti necessari perché il cambiamento possa avvenire».

Come è strutturato il suo modo di operare e interagire all’interno della banca?

«Io e due miei collaboratori lavoriamo per creare le condizioni per cui l’innovazione avvenga attraverso tre macro-leve che abbiamo chiamato: access, change e innovate. Access riguarda la capacità di comprendere che cosa c’è intorno a noi e trovare gli elementi che possano essere d’aiuto al raggiungimento del nostro obiettivo. Nel caso specifico, significa cercare start-up che possano aiutare la banca a innovare, un passo fondamentale per fornire una serie di servizi completi, a 360 gradi, anche uscendo da quelle che sono sempre state riconosciute come attività tradizionali di un istituto di credito. In altre parole, è necessario uscire dalla comfort zone. Il Gruppo, da questo punto di vista è già attivo e con Credemtel ha investito in Pmi come, ad esempio, la recente acquisizione di  Andxor, specializzata in soluzioni e prodotti per crittografia, infrastrutture a chiave pubblica, firma digitale. Tutto ciò comporta una vera e propria mappatura del mondo per allargare gli orizzonti in cui ci  si muove, sia per il presente, sia per il futuro, guardando con più attenzione alle dinamiche esterne e non necessariamente afferenti al mondo bancario. Proprio per questo motivo siamo in stretto contatto con aziende, università, gruppi di ricerca che si occupano di innovazione, come ad esempio Digital Magics o il Politecnico di Milano, perché l’osmosi di conoscenza è un requisito imprescindibile. Il secondo principio guida riguarda il cambiamento, perché stare in una start-up significa imparare un modo diverso di lavorare e, nel concreto, introdurre nella banca dei cambiamenti a dilivelli: design thinking, agile community, l’attività nel mondo dei dati».

Come interagisce all’interno della struttura bancaria?

«Lo facciamo a due livelli. Da un lato lanciamo i nostri messaggi all’interno dell’istituto come se fossimo un trasmettitore di onde che liberamente possono essere intercettate dal singolo individuo, con la finalità di creare una community, all’interno della quale si genera il confronto. Abbiamo, ad esempio, prodotto una newsletter, la cui ricezione non è obbligatoria ed è legata a una sottoscrizione, e promosso momenti di incontro aperti organizzati su temi importanti come l’agile o i dati (con l’azione forte di una nuova unità centrale focalizzata su questi temi), che hanno registrato una crescente adesione. Lo sforzo è stato di stimolare e incentivare chi nutre un vero interesse per gli argomenti trattati e lo abbiamo fatto in orizzontale, senza distinzione di ruoli e senza che l’iniziativa venisse calata dall’alto. Ovviamente continuiamo a farlo perché, per noi, è importante capire come le persone reagiscono alle sollecitazioni e i comportamenti che ne conseguono. Questo modo di operare aiuta la creazione di gruppi di lavoro. Dall’altro lato, stiamo cercando di impegnarci con la struttura apicale del Gruppo, dove già era stato aperto un importante cantiere su temi di carattere manageriale legati al nuovo modo di fare azienda: la cultura dell’errore, l’organizzazione piatta, la comunicazione. Noi ci siamo agganciati a questo percorso e abbiamo iniziato a interagire, cercando di introdurre approcci diversi nella valutazione delle situazioni e delle scelte connesse, fino a un lavoro specifico con il CdA di CREDEM proprio sui temi dell’innovazione».

Come vengono decisi i temi da sviluppare?

«Abbiamo creato un Comitato innovazione che decide i temi che saranno oggetto di studio, analisi e sviluppo all’interno di quello che chiamiamo innovation-lab. Al suo interno lavoreranno insieme a noi, per tre mesi, due giorni alla settimana, alcuni dipendenti che nel Gruppo riteniamo particolarmente idonei ad affrontare un tema specifico e che, pur non essendo specialisti in materia, sono portatori di competenze diverse che si integrano tra loro. Il risultato finale sarà un prototipo valutato dal Comitato innovazione, che potrà decidere di farlo diventare un prodotto
e ingegnerizzarlo».

I prototipi non hanno sempre successo

«L’errore fa parte del processo di innovazione, che altrimenti non sarebbe possibile, e questo è un concetto molto importante per potere crescere. Il fallimento non è un’onta ma  un’esperienza che rende consapevoli di cosa funziona, di cosa non funziona, delle direzioni che ha senso percorrere o meno. E diventa quindi uno stimolo ad aumentare la determinazione nel perseguire i propri obiettivi».

Il terzo principio guida che ha citato è innovate. Come viene articolato?

«Abbiamo definito tre orizzonti temporali (chiamati Horizon) mutuando un modello oltretutto non nuovissimo di McKinsey, ma che riteniamo utile per noi in questo momento: H1, H2 e H3. Più ci si sposta nella sequenza, più si va verso tecnologie, business e ricavi diversi da quelli tradizionali del Gruppo. H1 identifica le tecnologie e i modelli di business incrementali rispetto a quello attuale. Il nostro ruolo è di supporto, aiutando a sviluppare in maniera agile e data driven, proponendo, quando necessario, un metodo per realizzare il progetto. Io e il mio team siamo più attori in H2 e H3, nel definire traiettorie di innovazione per decidere, ad esempio, quale sarà il passo successivo dopo avere sviluppato la piattaforma digitale. Una volta individuato quale sarà il nuovo tema da affrontare, insieme ad altri colleghi, creiamo un innovation-lab, all’interno del quale studiamo come farlo diventare un prodotto o un servizio e lo riportiamo in H1 per verificarne la validità e l’efficacia dell’utilizzo. Operando in questo modo, otteniamo tre obiettivi: offriamo qualcosa di potenzialmente innovativo, creiamo competenza sul tema e, infine, da non sottovalutare, offriamo formazione ai colleghi che per un trimestre hanno lavorato con noi al progetto. Si tratta di un know how che non andrà perso, perché attraverso loro andrà a permeare la conoscenza anche di altri».

Qual è secondo lei la difficoltà maggiore nel portare avanti il suo progetto? In apparenza lei propone schemi di comportamento che rompono il modello bancario tradizionale: un compito non facile.

«Credo che la creazione del team di cui faccio parte sia il risultato di un processo di cambiamento che la banca ha iniziato tempo fa, partendo dal riconoscere le capacità di ciascuno e attribuendogli, di conseguenza, anche le responsabilità decisionali, in un contesto in cui l’organizzazione orizzontale sostituisce quella gerarchica. In azienda, circa un anno e mezzo fa, è partito un grande progetto che si chiama “R”evolution, in cui si è lavorato sui temi di cambiamento culturale, e che sinora ha riguardato il top management. Il prossimo passo sarà riproporre la stessa operazione anche nei confronti del management intermedio. Il mio ruolo, in questo contesto, è fare da pungolo perché l’onda di cambiamento non venga interrotta e creare continuo confronto e discussione. Sicuramente un percorso non facile, ma posso affermare che la qualità delle persone che ho incontrato in CREDEM non l’ho mai trovata altrove. Quindi, se c’è una banca che può raggiungere l’obiettivo, è proprio quella in cui io lavoro».

Piergiorgio Grossi

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By Pinuccia Parini

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