Un gigante industriale, un nano finanziario

Un marziano che sbarcasse sull’isola di Hong Kong, la zona più ricca della città, senza sapere nulla della Terra e si guardasse intorno, non avrebbe dubbi: penserebbe che l’Italia è il paese più importante del mondo, seguita a notevole distanza dalla Francia. Stati Uniti e Cina verrebbero considerati solo delle comparse. La presenza dei marchi italiani del lusso e della moda è infatti talmente prevalente da sconvolgere totalmente le tradizionali e ben più veritiere gerarchie economiche globali.

Purtroppo non è così, ma, in effetti, se si guarda a questo cosmo fatto di stilisti, di beni di lusso di alta qualità, di marchi prestigiosi in tutto il mondo, i numeri indicano che la presenza del Paese è enorme. Carlo Capasa, presidente della Camera della moda italiana, l’associazione no profit che sostiene lo sviluppo dell’intero settore, ha comunicato per il 2021 dati ottimi. Il fatturato atteso per l’anno ancora in corso saràdi circa 80 miliardi, con una crescita rispetto all’anno precedente del 17% (largamente meglio della media nazionale: l’incremento del Pil dell’Italia dovrebbe attestarsi intorno a +6% e viene considerato un dato estremamente favorevole). Di questi 80 miliardi ben 63 sono costituiti da esportazioni, che nel corso dell’anno dovrebbero vedere un incremento del 13%.

MACCHINE DA GUERRA

Per di più anche i leader del settore restano macchine da guerra. anche dopo un ciclone come il Covid. Armani nel 2021 prevede di fatturare oltre 4 miliardi di euro e di tornare ai livelli pre-pandemia (oltre 5 miliardi) entro il 2022. In ogni caso nel 2020 la società, pur nel pieno dei problemi sanitari, è riuscita a mettere a segno un utile netto di 90 milioni di euro.

Risultati ancora più eclatanti per Gucci, che nel solo primo semestre del 2021 ha realizzato un giro d’affari di 4,4 miliardi, con una crescita di oltre il 50% rispetto agli stessi sei mesi dell’anno precedente e il ritorno ai livelli pre-pandemia già da adesso. Interessanti anche i numeri del gruppo Prada, con 3,2 miliardi di fatturato, quasi 14 mila dipendenti, 641 negozi e una presenza in 70 paesi del mondo.

MILANO, UNA META AMBITA

Inoltre, l’indotto mosso dall’intero settore è di grandi dimensioni. Oggi Milano, considerata ormai una delle grandi capitali mondiali della moda, al pari di Parigi e di New York, è una delle città italiane con la maggiore presenza di turisti. Con 11 milioni di presenze (numeri pre- Covid), il capoluogo lombardo era la seconda città italiana più visitata, davanti a Venezia e a Firenze, storiche mete del turismo internazionale. E la moda rappresenta, in una città che certamente non può competere per bellezza con i grandi centri d’arte, la calamita più importante per attirare persone da tutto il mondo.

SEMPRE Più ESG

Il tessile-abbigliamento italiano di alta fascia non si è fatto trovare impreparato neppure sul problema sostenibilità. Sempre la Camera della moda italiana fin dal 2010 ha costituito un tavolo di lavoro su questo problema ed è stato realizzato un decalogo sul tema che impegna i produttori a muoversi con la massima attenzione sui criteri Esg. « L’obiettivo del Decalogo sulla responsabilità sociale e ambientale nel settore moda, promosso da Camera Nazionale della Moda Italiana, è quello di tracciare una via italiana alla moda responsabile e sostenibile e di favorire l’adozione di modelli di gestione responsabile lungo tutta la catena del valore della moda a vantaggio del sistema Paese»,  viene affermato nella premessa. «Il Decalogo è quindi rivolto innanzitutto alle imprese associate a Camera Nazionale della Moda Italiana, ma anche ad altre imprese che partecipano, con il loro know-how, all’eccellenza dei prodotti italiani nel mondo. Al punto 10, il Decalogo prevede inoltre, per Camera Nazionale della Moda Italiana, alcune azioni specifiche di diffusione, volte alla migliore risonanza ed efficacia del presente strumento».

E le linee guida che vengono fornite non mancano di chiarezza «Sii consapevole della responsabilità che il processo creativo può avere nel coniugare stile, innovazione, funzionalità, performance, affidabilità e compatibilità ambientale», «Progetta prodotti di qualità che durino nel tempo», «Quando identifichi le materie prime, i materiali e le finiture per il tuo prodotto poni attenzione anche alla loro qualità ambientale e sociale», «Includi nel processo creativo l’attenzione alla riduzione di rifiuti e scarti di lavorazione», «Valuta la possibilità di utilizzare materiali riciclati e rigenerati e sperimenta modi per reinterpretare prodotti (o parti di essi) e materiali arrivati a fine vita», «Completa il prodotto con un packaging che minimizzi gli impatti sull’ambiente e la produzione di rifiuti», «Controlla e minimizza i consumi di risorse energetiche e naturali, con particolare riferimento a energia elettrica e acqua» sono solo alcuni dei “consigli” che vengono forniti da oltre un decennio. E aggiunge ancora Carlo Capasa: «Per l’Italia, primo produttore di moda del lusso al mondo, la sostenibilità rappresenta una fondamentale leva competitiva che permette di consolidare la propria leadership».

NON TUTTO è PERFETTO

Ma va tutto bene nel campo della moda? È un mondo perfetto? Indubbiamente no. Se sul piano produttivo e progettuale, oltre che commerciale, la grande moda italiana è su livelli di eccellenza mondiale, a livello finanziario è un nano. Un investitore che volesse puntare su un titolo italiano di questo settore non avrebbe molta scelta: Brunello Cucinelli, EssilorLuxottica, Tod’s, Salvatore Ferragamo e Moncler sono le uniche azioni disponibili sul mercato nazionale. Prada si è quotata a Hong Kong, Gucci è sul listino di Parigi tramite Kering. In pratica, pur avendo un grande quantità di realtà di grandi dimensioni e di valore internazionale, la moda italiana sulle borse è quasi un fantasma. Un titolo come la francese Lvmh, che raccoglie i maggiori marchi del lusso a livello mondiale, compresi molti italiani, da noi non esiste. Neppure un’azione come Christian Dior, una delle più trattate alla borsa francese, o una Inditex, che ha un ruolo da protagonista sul listino spagnolo.

E quando un’azienda di questo settore del Belpaese ha problemi di carattere finanziario o, fatto molto più importante, ha bisogno di programmare una crescita, normalmente vende tutto a un gruppo straniero. Valentino fashion group, altro marchio storico, presente in 90 paesi e con oltre 250 punti vendita, dopo essere passato al gruppo Permira, è stato ceduto a Mayhoola for Investments del Qatar. Alcuni altri esempi significativi: Fendi, è stata acquistata dal gruppo francese Lvmh, che ha messo nel suo portafoglio anche Emilio Pucci (2000) e Loro Piana. La già citata Kering, oltre a Gucci, ha preso pure Bottega Veneta, mentre Versace, nel 2018, è stata acquisita dal gruppo statunitense Michael Kors Holding. Anche un marchio simbolo del made in Italy come Krizia è ormai cinese ed è di proprietà della Shenzhen Marisfrolg Fashion. Anche i coreani di E-Land hanno fatto il loro shopping in Italia, acquisendo Mandarina Duck e Coccinelle. Infine, una società molto conosciuta nel campo della lingerie di lusso, come La Perla, dopo una serie di difficoltà economiche, è stata presa dalla società d’investimento olandese Sapinda Holding. Ma l’elenco è molto lungo e ultimamente è stato arricchito anche da nomi dell’alimentare che rientra in pieno nell’eccellenza del Made in Italy.

UNA FINANZA CHE NON INTERVIENE

In pratica, la finanza italiana è stata incapace di risollevare e lanciare alcuni storici nomi del lusso del nostro Paese e, se un investitore volesse mettere dei capitali su alcuni importanti nomi simbolo del Made in Italy, dovrebbe puntare su holding in cui gli italiani sono mescolati ad altre società che esprimono una cultura totalmente diversa.

In conclusione, se la moda è ormai da tempo una certezza nell’economia italiana, in grado di creare direttamente e indirettamente centinaia di migliaia di posti di lavoro, è sempre meno parte del sistema Italia. Quella che per anni è stata un’indubbia vittoria del Paese, da tempo si è trasformata in una sonora sconfitta, proprio per la nostra incapacità di fare squadra intorno a uno dei settori chiave. In un quadro di grande ottimismo, come quello attuale, certamente mettere a punto strumenti e strategie finanziarie capaci di salvaguardare il meglio della nostra industria sarebbe fondamentale.

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