Verso il green bitcoin

Il mercato delle criptovalute è estremamente volatile, con rapidissime quanto imponenti ascese delle quotazioni seguite da altrettanto rapidi crolli. Il trend di lungo periodo, però, per il momento punta in una direzione di forza per molti di questi asset, in particolare per il più popolare: il bitcoin. Per capire ciò di cui si sta parlando, vale la pena analizzare ciò che è successo in un lasso di tempo ragionevolmente lungo: infatti, prima del grande boom dell’ultimo anno, il 2017 aveva visto i picchi di quella che si era trasformata in un’autentica mania. Dopo il crollo del 2018 e il consolidamento successivo, ondate di acquisti sono tornate a concentrarsi nell’intero settore in maniera inusitata nella seconda metà del 2020. I precedenti massimi storici, oltre la soglia di 14 mila dollari per il bitcoin, sono stati superati lo scorso ottobre, per arrivare ad aprile di quest’anno al di là della barriera di 65 mila. Da allora le quotazioni hanno lasciato sul terreno 25-30 mila dollari. Si tratta di dati che forniscono un’idea della volatilità e della difficoltà di trasformare il variegato insieme delle cripto in un universo approcciabile da parte di investitori istituzionali e professionali.

Questioni molto interessanti emergono quando si va a scavare alla base delle cause dell’andamento a montagne russe: da una parte ovviamente il fatto di essere un settore di investimento recente e con una base di investitori relativamente informale e giovane sicuramente contribuisce alla volatilità. Dall’altra, la maniera in cui il bitcoin è stato concepito, con un’architettura piuttosto diversa da quella sulla quale si basano altre popolarissime cripto, lo rende una sorta di commodity virtuale, con molti elementi in comune con l’oro. Alla base delle valute virtuali vi è infatti una doppia ribellione rispetto al processo di creazione di moneta come l’abbiamo conosciuto fino a oggi.

Caratteristiche deflative

Essenzialmente, se volessimo semplificare molto, ogni valuta è in grandissima parte creata dalle banche centrali in primis (soprattutto tramite le operazioni di mercato aperto) e dalle istituzioni bancarie attraverso l’erogazione di credito. Quest’ultima forma di creazione monetaria è sostanzialmente limitata solo dal rispetto dei coefficienti patrimoniali previsti dal regolatore per le banche. Il bitcoin, invece, si fonda su una filosofia completamente opposta: la sua creazione spetta a un network decentralizzato di cosiddetti miner, che vengono ricompensati per la loro attività con nuovi bitcoin. Questo premio tende però a diventare sempre minore in maniera tale da raggiungere progressivamente il limite di 21 milioni di unità, che è l’ammontare massimo di questo peculiare asset che potrà mai essere creato. A inizio giugno 2021 era stata peraltro superata quota 18,7 milioni. 

Da questa breve descrizione i contorni del paragone con il prezioso per eccellenza appaiono evidenti: come quest’ultimo, il bitcoin andrà progressivamente a esaurirsi e di conseguenza le sue caratteristiche sono intrinsecamente deflative e di bene rifugio, più che di mezzo di pagamento per transazioni commerciali. Non sorprende, dunque, che il suo mostruoso mercato toro sia riemerso con prepotenza negli ultimi mesi del 2020, quando hanno cominciato a intersecarsi in maniera inestricabile speranze di ripresa economica e paure che l’inflazione possa sfuggire di mano per le robuste politiche monetarie e fiscali messe in atto negli Usa e in Europa. 

Contemporaneamente, però, per il bitcoin è esplosa una questione ambientale pesantissima, perché (al pari peraltro di diverse materie prime vere) ha come principale input di produzione l’energia elettrica, il cui consumo a scopo di mining è cresciuto vertiginosamente. Alla fine di aprile di quest’anno era stata raggiunta quota 110 terawatt ora all’anno, lo 0,55% di tutta la produzione elettrica globale. Si tratta di un ammontare paragonabile a quello di una potenza industriale emergente di medio livello come la Malaysia. E, ovviamente, stanno cominciando a levarsi voci molto contrarie al bitcoin, visto anche il clima di crescente sensibilità nei confronti dei temi ambientali e della sostenibilità in generale. Non sorprende, infatti, che a contribuire al crollo di maggio, oltre alla stretta legislativa cinese, sia stato un tweet di Elon Musk. Quello che è uno degli imprenditori più mediatici e brillanti del mondo è passato dal ruolo di grande sostenitore delle cripto a rifiutare i pagamenti in bitcoin da parte delle sue aziende per motivi ambientali. In pratica, oggi per qualsiasi investimento non è un punto a favore il fatto di mettersi contro il trend della sostenibilità.

Una blockchain basata sulla proof of work

Probabilmente molti si chiedono a questo punto le cause del vertiginoso aumento dei consumi energetici da parte dei bitcoin. La spiegazione di ciò risiede nella maniera in cui essi sono creati e come i registri delle transazioni sono mantenuti. Infatti, il sistema si basa su un’architettura blockchain di tipo proof of work. Senza scendere nel dettaglio del funzionamento, essenzialmente questo sistema garantisce che il registro delle transazioni condiviso fra tutti gli utenti sia uguale in ogni copia, in maniera da evitare che una persona possa spendere valuta che non ha. A gestire i flussi finanziari all’interno del circuito vi è una serie di regole di crittografia. In pratica, i movimenti di denaro vengono suddivisi in blocchi successivi che contengono una serie di informazioni sulle transazioni;  come ogni file, ciascun blocco può essere trascritto attraverso una serie di regole in una sequenza di 256 zero e uno.  

Se il file viene cambiato anche in un minimo dettaglio, la sua rappresentazione muta in maniera profonda e con caratteristiche che riproducono la casualità. A questo punto, prima che una serie di movimenti di bitcoin possa essere confermata e aggiunta come aggiornamento al libro mastro totale, intervengono i miner. Essi devono attaccare un numero casuale (detto nonce) al file/blocco ricevuto, che dunque muta in maniera imprevedibile. Questo processo va ripetuto un numero (incredibilmente elevato) di volte con nonce diversi, fintanto che il pezzo di libro mastro, più il suddetto nonce, non sputa una rappresentazione in 256 cifre (una sequenza di zero e uno) che comincia per un tot di zeri. A quel punto il miner può presentare la cosiddetta prova del lavoro svolto e assume il diritto di aggiornare lo storico delle transazioni con un nuovo blocco aggiunto. Tutte le copie dell’elenco vengono rese conformi a queste nuove informazioni e il miner riceve una ricompensa sotto forma di nuovi bitcoin per il lavoro svolto. Ricompensa che diminuisce nel corso del tempo, in accordo con il principio del limite massimo di pezzi di questa cripto che è possibile creare e che è 21 milioni di bitcoin. 

In questo processo il numero di zeri iniziale necessario per confermare un blocco rappresenta l’elemento chiave della difficoltà. Cambiare, ad esempio, da 40 a 50 zeri il requisito richiesto significa un salto gigantesco nella capacità computazionale da impiegare per avere speranza di essere il miner che arriva per primo. Il principio di fondo è impiegare sempre circa 10 minuti per aggiungere un blocco di nuove transazioni al libro mastro generale. Pertanto, se si aggiungono più soggetti con computer più potenti, per evitare che la proof of work diventi troppo facile, si rende il problema di crittografia più complesso. Un’altra conseguenza è che, con il crescere delle quotazioni dei bitcoin, l’attività di mining diventa più appetibile e quindi si aggiungono nuovi protagonisti e perciò, per rispettare il principio dei 10 minuti, il tutto diventa gradualmente più difficoltoso. La necessità di avere sempre più computer e sempre più potenti ha generato l’ascesa mostruosa dei consumi elettrici che oggi rappresenta il più grosso problema d’impatto ambientale dei bitcoin.

Commodity verdi e non 

Ma torniamo nel mondo fisico, dove negli ultimi mesi c’è stata una ripresa fortissima di corsi delle materie prime. Alla base del fenomeno, quasi ovunque nel mondo vi è in generale la ripresa economica post-pandemia, la forte disciplina dei produttori di commodity nel limitare l’offerta e i robusti piani di stimolo infrastrutturale, orientati a una ridefinizione in chiave green dell’economia. In questo ambito si possono individuare risorse naturali il cui consumo verrà progressivamente compresso, come ad esempio i combustibili fossili. Altre, invece, in particolare metalli come palladio, rame e nickel che sono fondamentali in diverse filiere verdi come la produzione di rinnovabili e le auto elettriche, dovrebbero vedere i propri consumi esplodere. L’aspetto interessante è che con ogni probabilità i legislatori imporranno limiti severi alle emissioni accettabili nella produzione di queste risorse, in maniera da renderle per davvero un elemento netto positivo nella transizione. Tutto ciò andrà a creare nelle relative filiere un aggravio di costi, che non irragionevolmente verranno trasferiti sul prezzo finale vista la domanda industriale in vertiginosa crescita.

A questo punto torniamo nel mondo delle cripto. Il bitcoin, come abbiamo visto, replica per molti aspetti il ruolo dell’oro, ma, a differenza di una materia prima reale, non ha nessuno sbocco necessario in filiere industriali. Non vi sarebbe dunque da sorprendersi se si facesse sentire con una certa energia la scure di vari regolatori in giro per il pianeta. Di recente, ad esempio, lo stato di New York ha proposto una legge per bandire le attività di mining nel suo territorio fino a che non sarà stabilito l’impatto ambientale del settore. Quaranta protagonisti del mondo delle cripto, in risposta, hanno varato il cosiddetto crypto climate accord, che replica in qualche misura quello di Parigi sul clima. L’obiettivo è arrivare entro il 2025 al 100% di energia rinnovabile in tutte le blockchain sul pianeta. Si tratta, come si può capire, di propositi molto ambiziosi, che per il momento sono su base puramente volontaria.

Il banco di prova più difficile

L’aspetto interessante è che, se si materializzasse davvero un cambiamento del genere nel mining dei bitcoin, questa attività andrebbe per la prima volta incontro a uno shock esogeno nella propria struttura dei costi. Allo stato attuale appare quasi impossibile stabilire un effetto complessivo. Sicuramente la proof of work non ha incredibili margini, tanto che spesso, quando le quotazioni del bitcoin calano, il numero di miner diminuisce perché l’attività finisce facilmente in perdita. Dopodiché, i problemi di crittografia tornano più semplici, in maniera da mantenere intorno ai 10 minuti il tempo necessario alla creazione di un nuovo blocco. Si tratta dunque di un meccanismo che si autoregola: a differenza, infatti, delle materie prime vere, non ha mai dovuto subire un giro di vite legislativo serio (Cina a parte).

Non è folle ritenere che, se i bitcoin si trovassero in uno scenario di fortissima richiesta da parte degli investitori, adottare l’uso di elettricità verde alla fine si rivelerebbe un problema tutto sommato gestibile. La lezione che si può trarre, comunque, è che oggi nessun modello di business può ignorare l’impatto ambientale, neppure la frontiera ultima del capitalismo più creativo, selvaggio, decentralizzato e ribelle. Per il resto, oggi si fa davvero fatica a immaginare le caratteristiche di quello che sarà il green bitcoin. 

Boris Secciani

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Responsabile Ufficio Studi Fondi&Sicav

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