Cina, un’esposizione strutturale nei portafogli

Le aspettative degli investitori nei confronti del mercato cinese sono forse state deluse. Chi si attendeva una forte ripresa, memore di quanto avvenuto negli altri paesi all’indomani della riapertura post Covid, ha dovuto fare i conti con dati macro più contenuti. Come leggere quanto sta accadendo nel paese diventa quindi il vero punto di domanda al quale danno una risposta Donatella Principe, director market e distribution strategy, e Catherine Yeung, investment director, di Fidelity International.

Quali sono le sue considerazioni sul cambiamento del modello di crescita della Cina?

Donatella Principe: «La Cina è stata quasi costretta a rivedere il proprio modello di crescita, che risaliva agli anni ‘80 e, di conseguenza, non era più consono alle nuove dinamiche del mercato. Allora, era un’economia poco innovativa e con un tasso di produttività molto contenuto, che aveva bisogno di aprirsi al mondo, esportando beni di bassa qualità e importando know how. Per offrire un metro di paragone, il Pil cinese era circa un decimo di quello americano. Con il passare del tempo, però, la natura dell’attività economica è cambiata e, con l’entrata nel Wto, si è assistito a una vera e propria accelerazione del peso della nazione all’interno del commercio mondiale, che, attualmente, vede la Cina come il principale partner del 75% dei paesi sul pianeta. Nell’arco di circa 40 anni, l’economia cinese, a parità di potere d’acquisto, è diventata più grande di quella americana. Si tratta, inoltre, di un’economia tra le più produttive e innovative al mondo. È anche cambiato il contesto geopolitico, un aspetto che spesso non viene preso in considerazione per comprendere l’indirizzo economico del paese».

A che cosa fa riferimento?

Donatella Principe: «Alla nascita di un antagonismo molto forte nei confronti della Repubblica Popolare da parte dell’occidente, che pensava di potere finanziare la propria crescita e il tenore di vita attraverso la Terra di mezzo. La situazione è però mutata dopo lo scoppio della crisi dei subprime, cui ha fatto seguito un’ondata protezionistica mondiale. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, le tensioni si sono acuite notevolmente: i dazi verso le merci cinesi sono passati dal 3,1% al 19,3%, livello attualmente ancora in vigore. Se c’è un aspetto che accomuna l’amministrazione americana attuale con quella precedente, è proprio il confronto anticinese, che si è intensificato e ha toccato un punto nevralgico come quello della tecnologia, dove il caso Huawei è un esempio eclatante». 

È una Cina che si è trovata a “subire” l’occidente?

Donatella Principe: «Il Paese si è trovato in una condizione in cui, mentre affidava i destini della propria crescita ad altre nazioni, in un contesto nel quale aveva subito gli effetti negativi della crisi finanziaria e di quella dei debiti sovrani, non ha potuto fare altro che rivedere il proprio modello di sviluppo. L’ esempio che veniva dall’occidente non solo metteva in luce una serie di criticità delle economie avanzate, ma imponeva un ripensamento interno che non rendesse il Paese strettamente vincolato ai destini altrui. I tassi attesi di crescita del Pil non sono quelli dei decenni passati, ma spesso ci si dimentica le dimensioni raggiunte dall’attività economica e di quanto la base di riferimento sia aumentata, per comprenderne la potenza. Inoltre, la Cina ha avuto un grande privilegio: potere osservare gli errori commessi dall’occidente e decidere di fare altrimenti. Oggi l’obiettivo è svilupparsi puntando sulla qualità e sulla sostenibilità, avendo come punto di arrivo la “common prosperity”, ovvero rafforzare l’uguaglianza sociale e l’equità economica. Non si tratta solo di appoggiarsi sui consumi interni per crescere, bensì di diventare indipendenti acquisendo una leadership tecnologica. La Cina, a differenza dell’occidente, che ha preferito avere beni a basso costo, piuttosto che proteggere il mercato del lavoro, “demanifatturizzando” la propria economia, ha accettato di avere un settore manifatturiero meno efficiente da utilizzare come ammortizzatore sociale».

Non vede un rischio di eccesso di dirigismo nella classe politica cinese?

Donatella Principe: «La Cina sta facendo di tutto perché le aziende del paese siano dei campioni internazionali guidati dal mercato.  A sostegno di questo progetto, ci sono investimenti diretti nella ricerca da parte del governo, che a sua volta, tuttavia, ha aperto nuovi mercati azionari, con regole semplificate, dedicati solo alle aziende più innovative, espressione di nuovi settori della tecnologia. Si vuole così creare un contesto nel quale le imprese siano competitive a parità di condizioni per i capitali privati. Si è forse di fronte a un dirigismo, ma corretto con le regole di mercato: è il capitalismo cinese. All’interno di questo processo, è interessante osservare l’innalzamento degli standard delle società nella governance e nella trasparenza, tanto che la stessa Msci ha accelerato il processo di inclusione delle azioni A negli indici. Il governo punta a creare un tessuto economico in cui la competizione sana diventi un valore, tanto che sono stati innalzati gli standard contabili delle Soe (Società a partecipazione pubblica), completamente trasformate rispetto a 30 anni fa e che sono diventate, dopo un processo di consolidamento e riorganizzazione, aziende efficienti capaci di stare sul mercato».

Per diventare campioni internazionali, l’innovazione è fondamentale. Quanto pesa il “Chips Act” sulla crescita cinese?

Donatella Principe: «Penso che si debba cambiare l’angolatura con cui si guarda al “Chips Act”: non è un atto di aggressione degli Stati Uniti nei confronti della Cina, bensì di difesa. Quando è scoppiato il Covid, l’America ha vissuto il suo “Sputnik” moment (il lancio del satellite omonimo nello spazio da parte della Russia che allarmò così tanto Washington da spingerla a correre ai ripari e lanciare il programma spaziale che permise il primo allunaggio al mondo) e si è resa conto di non controllare una tecnologia strategica, perché più del 50% di tutti i chip al mondo e più del 90% di quelli di alta gamma sono prodotti a Taiwan. Gli Stati Uniti si sono trovati così nella trappola di Tucidide, del leader che è costretto, per mantenere la sua leadership, a sfidare l’opponente e, di conseguenza, non hanno avuto altra alternativa se non soffocare la ripresa del Dragone. Nel breve periodo il “Chips Act” è sì una limitazione per la fascia di alto valore aggiunto dei semiconduttori, che la Cina può però compensare con la produzione di memorie di più vecchia generazione, meno veloci, ma capaci di raggiungere lo stesso risultato. Inoltre, bisogna considerare il divario di forze enormi esistenti tra questa misura americana e ciò che la Cina ha messo sul piatto con il XIV piano quinquennale, focalizzato sulla tecnologia e che prevede investimenti in cinque settori specifici: manifattura avanzata, scienza per la vita, aerospazio, quantum It e intelligenza artificiale. Il tutto già partendo con un ruolo di leadership in alcuni segmenti tecnologici: dalla tecnologia per l’energia rinnovabile ai veicoli elettrici e alle smart grid. Inoltre, vorrei ricordare che il Paese è ormai leader mondiale nei brevetti tecnologici: in Asia viene controllato oltre il 60% dei brevetti 5G che sono quasi tutti di aziende cinesi e nove dei 10 più importanti centri di ricerca sull’intelligenza artificiale sono cinesi».

I recenti dati macro, però, mostrano una ripresa meno forte delle attese. Che cosa ne pensa?

Donatella Principe: «La Cina è cambiata e, proprio per questa ragione, diverse sono l’intensità e le caratteristiche della ripresa. È differente per intensità, perché nel 2020 si è passati a una diversa gestione economica, attraverso un percorso più morbido fatto di piccoli aggiustamenti: non più contro-ciclica (all’occidentale), ma cross-ciclica. Chi si aspettava che l’uscita dalla crisi avrebbe comportato un boom in linea con il passato dello stimolo fiscale e della politica monetaria, non ha capito la Cina contemporanea. Non è successo neppure durante il Covid e lo testimoniano i dati che vedono il Paese al 65° posto a livello mondiale per spesa fiscale a sostegno delle famiglie e delle imprese, che non rappresenta neppure il 7% del Pil, mentre la Banca centrale cinese ha operato solo pochi interventi mirati».

Anche il mercato azionario, dopo avere conosciuto un forte rimbalzo con la fine della politica di tolleranza zero nei confronti del Covid, sembra avere perso parte del suo spunto. Come lo spiega?

Catherine Yeung: «Il sentiment del mercato sembra incredibilmente ribassista, rivelando disorientamento e insoddisfazione. Penso che gli investitori debbano rivedere le aspettative sulla Cina, perché le attese di chi prevedeva una ripresa a “V”, come è avvenuto negli altri paesi con la riapertura post Covid, sono state deluse. L’economia del gigante asiatico è sì ripartita, ma con la classica forma a “K” che indica una disomogeneità tra i settori: alcuni sono in recupero, altri in ritardo e altri ancora rimangono stagnanti. Le motivazioni di ciò vanno ricercate nel fatto che il governo non ha implementato forti misure di stimolo o iniezioni di liquidità nel sistema, come forse ci si poteva attendere dalla Cina».

 

Che cosa è successo?

Catherine Yeung: «C’è stato un vero e proprio cambio di passo che probabilmente ha sorpreso coloro che sono sempre stati molto critici nei confronti del Dragone, mettendo in dubbio la sostenibilità e la crescita a lungo termine dello sviluppo pianificato del paese, in particolare la spinta del governo sulle infrastrutture e sul settore immobiliare. Questa volta, invece, l’esecutivo ha deciso di ridurre le aspettative, monitorare i segmenti immobiliari, con un più attento scrutinio dei bilanci delle società coinvolte, e procedere a un consolidamento all’interno del comparto, dove è aumentata la presenza delle aziende partecipate dallo stato che attualmente posseggono circa l’80% dei terreni per sviluppi immobiliari. Inoltre, queste imprese si comportano in modo molto diverso dalle società private, che storicamente incrementano in modo massiccio i progetti di sviluppo quando c’è una ripresa ciclica. In aggiunta, è bene ricordarlo, una ripartenza dell’economia non è mai un processo lineare e può di conseguenza conoscere anche un percorso accidentato. È necessario, quindi, contestualizzare la situazione e, nel caso della Cina, non si può ignorare che la People Bank of China (Pboc) sia in una posizione diversa rispetto alle altre istituzioni centrali: ha la flessibilità e la forza di bilancio per effettuare, qualora ce ne fosse la necessità, politiche monetarie e fiscali espansive. Detto ciò, non si possono però dimenticare le conseguenze di quanto avvenuto nel 2008: il forte stimolo di allora ha infatti provocato un significativo aumento del debito del paese. È proprio per questo motivo che si sta assistendo all’adozione di misure mirate, indirizzate soprattutto a incoraggiare la spesa delle famiglie, perché i consumi sono una componente significativa per la crescita».

All’interno di questo contesto, quali sono le sue attese per i mercati azionari?

Catherine Yeung: «L’opinione degli investitori non si può certo definire ottimista, anzi, direi che è incredibilmente ribassista, tanto quanto lo era alla fine dello scorso anno dopo il Congresso del Popolo. Tuttavia, i driver di crescita strutturali rimangono invariati e le valutazioni del mercato azionario sono particolarmente a sconto, prezzando uno scenario molto negativo e che si presta a eventuali sorprese positive al rialzo. I multipli dell’azionario, rispetto ai valori storici e ai peer globali, appaiono molto appetibili e pensiamo si possano trovare interessanti opportunità di selezione». 

Negli ultimi anni avete puntato sul settore dell’innovazione cinese. Tuttavia la nuova regolamentazione e altri fattori hanno reso il contesto difficile. Qual è la vostra view oggi?

Catherine Yeung: «Nel 2021 il settore è stato interessato da quella che potremmo definire una tempesta perfetta di venti contrari.

1. In primo luogo, con l’obiettivo di migliorare la sicurezza, promuovere l’equità e la competitività, c’è stato il varo di una serie di nuove normative rivolte ad alcuni settori chiave dell’innovazione  come internet. La lunghezza e la severità delle nuove norme è stata maggiore di quanto atteso. Tuttavia, siamo dell’idea che la regolamentazione sia un fattore ciclico e che si sia superato il picco delle politiche normative a sorpresa. A partire dalla metà del 2022, il governo ha inviato segnali positivi a sostegno del settore privato. In particolare, la leadership del paese sta incoraggiando le società di internet a guidare le innovazioni e a contribuire alla crescita dell’economia in generale. Anche i rischi normativi sulla sanità si sono attenuati, come dimostrano i tagli più blandi ai prezzi per l’inclusione dei farmaci nel rinnovo della National Reimbursement Drug List  (Nrdl) e una maggiore attenzione all’efficacia e all’efficienza, invece di avere come unica priorità i prezzi più bassi. 

2. In secondo luogo, si è assistito alla rotazione verso il value, poiché l’aumento dei tassi ha inciso in modo sproporzionato sui multipli di valutazione dei titoli growth.

3. C’è stato un rallentamento della crescita a causa del blocco del Covid e si è registrata una ripresa più lenta del previsto dopo la riapertura. Tuttavia, vediamo che i consumi nel complesso si sono ripresi meglio delle attività industriali e la domanda di servizi è quella che ha registrato una migliore risalita e potrebbe superare i livelli pre-Covid, non appena la mobilità sarà tornata pienamente alla normalità. Il governo ha mantenuto un atteggiamento a sostegno della crescita, ma non ha ancora varato stimoli massicci, per non dovere poi tornare a ridurre la leva finanziaria sulla quale ha lavorato molto. I livelli di inflazione, però, rimangono bassi e ciò offre alle autorità ampio spazio di manovra in caso di necessità.

4. Infine, le crescenti tensioni geopolitiche si sono intensificate negli ultimi tre anni senza alcun miglioramento significativo e gli Adr quotati negli Stati Uniti, che sono per lo più titoli della new economy, sono stati messi sotto pressione dal potenziale rischio di delisting dovuto all’Hfcaa (Holding Foreign Companies Accountable Act), dalle restrizioni allo sviluppo tecnologico cinese di fascia alta, tra cui l’intelligenza artificiale e il supercalcolo, e dai potenziali pericoli di sanzioni per i conflitti geopolitici. È l’unico rischio che pensiamo sia strutturale. Molte aziende cinesi considerano questa situazione come una nuova normalità e operano di conseguenza. Tuttavia, non crediamo che si tratterà di un decoupling completo. Gli Stati Uniti probabilmente tracceranno una linea di demarcazione incentrata sulle tecnologie più avanzate, ma  non toccheranno le aree relativamente più mature, perché gli Usa e il mondo intero hanno bisogno della Cina, sia come importante fornitore, sia come mercato finale critico».

Come vi state dunque posizionando nel contesto attuale? 

Catherine Yeung: «Al di là dei venti contrari di breve periodo, pensiamo che la maggior parte di questi fattori sia di carattere ciclico e che, pertanto, gli elementi che hanno reso la Cina un centro di innovazione siano ancora presenti. La quantità e la qualità dei dati rimangono un elemento chiave. Le catene di approvvigionamento, anche e soprattutto durante le interruzioni causate dalla pandemia, si sono dimostrate solide. La serie di nuove normative che sono state varate dal governo ha messo alla prova gli operatori più grandi, ma ha anche spinto e incoraggiato quelli più piccoli a lavorare e a portare alla luce un maggiore numero di innovazioni. Le tensioni geopolitiche stanno portando a un’accelerazione della localizzazione. Tutti questi fattori stanno facendo emergere nuove opportunità in ambiti quali l’innovazione tecnologica, ambientale e degli stili di vita. In sintesi, la nostra convinzione su questi temi chiave per la Cina rimane particolarmente forte, perché i driver strutturali rimangono invariati, sono stati compiuti progressi in tutti,  le valutazioni sono ai minimi degli ultimi 10 anni e i fattori negativi che hanno portato a questo derating si stanno trasformando in fattori positivi e di supporto alla ripresa».

Pinuccia Parini

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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