Denaro vivo, denaro morto

Stéphane Vacher, Responsabile Comunicazione Private Gruppo Credem

Interrogarsi sul rapporto, non sempre armonioso, tra risparmio ed economia non è per nulla un fatto nuovo. Marx, nel terzo libro del Capitale, già teorizzava l’esistenza di un divario tra “capitale monetario”, detenuto sotto forma di denaro dalle banche, e “capitale industriale”, espresso sotto la forma di mezzi di produzione. Ben Bernanke, ex capo della Federal Reserve americana, che può essere accusato di molto, ma non di essere un fervente marxista, ha cominciato nei primi anni 2000 a denunciare le conseguenze negative del “global saving glut” in atto (“eccesso globale di risparmio”). Questa bulimia di risparmio, indicava Bernanke, poteva deprimere la dinamica dei tassi di interesse e provocare un andamento recessivo. Nel mezzo, Keynes, negli anni ’30, ha analizzato con forza la tendenza delle nostre economie a un eccessivo accumulo di risparmio che, togliendo risorse dal mondo dei consumi e dagli investimenti produttivi, conduce alla depressione del sistema fino a quando si crea un nuovo punto di equilibrio. 

Da Marx a Bernanke, passando da Keynes. Un’insospettabile triade di autorevoli pareri che concordano sulla diagnosi, ma differiscono largamente sui rimedi. Per Marx non esiste nessuna soluzione nel lungo termine, trattandosi di una contraddizione propria del capitalismo che lo avrebbe portato al suo ineluttabile declino. Bernanke si concentra, invece, sulle mosse monetarie e i possibili interventi delle banche centrali per stimolare l’economia e fare ripartire, al rialzo, la curva dei tassi. Keynes, infine, ipotizza che i governi possano prendere in prestito i risparmi per spenderli in progetti socialmente utili: una via di mezzo tra una finanziaria e il Recovery fund. 

Abbiamo volutamente semplificato a oltranza 150 anni di dibattito economico attorno alla stessa domanda…per farne sorgere un’altra: che cosa rende questa disputa oggi così attuale? Quali sono le caratteristiche presenti, lato risparmio e lato economia, che ci costringono a ragionare su soluzioni innovative in grado di porre le basi di un nuovo patto di fiducia tra risparmiatori, intermediari finanziari e aziende? E perché la situazione italiana è, da questo punto di vista, particolarmente interessante? 

Partiamo dal mondo dei risparmi, oggi caratterizzato da uno straordinario eccesso di liquidità. Nel solo periodo successivo l’inizio della pandemia abbiamo, noi Italiani, accumulato quasi 180 miliardi aggiuntivi sui nostri conti correnti, che ormai hanno superato 1.800 miliardi complessivi. Un conto corrente più grosso di un Pil. Se consideriamo, poi, che un’altra fetta consistente dei nostri risparmi è sottratta al mondo produttivo, perché concentrata in immobili, e che un ulteriore pezzo significativo viene investito in strumenti monetari, capiamo che la maggior parte di ciò che accantoniamo è “fuori dal giro” dell’economia reale. Risparmio del tutto privo, nel contesto attuale, di prospettive di rendimento, ma anche colpevolmente sottratto ai progetti e alle aziende che saranno motori dello sviluppo di domani. 

Sul fronte della nostra economia il panorama è altrettanto ricco di spunti. Certo, abbiamo molte aziende sane, robuste e che crescono, alimentate dai propri ricavi reinvestiti, dalle risorse provenienti dai mercati attraverso l’emissione di azioni e obbligazioni o dai prestiti concessi dalle banche ai creditori virtuosi. Un mondo che cresce, per conto suo, con gli strumenti classici che l’industria finanziaria ha da molti decenni messo a sua disposizione. Ma esiste anche una miriade di imprenditori, giovani talenti e aziende in una fase critica del loro percorso di espansione che su questi strumenti non può contare. 

Ed ecco, quindi, che arriviamo naturalmente alla responsabilità storica degli intermediari che spesso hanno, nel loro portafoglio clienti, entrambi questi profili: risparmiatori alla ricerca disperata di opportunità d’investimento e che magari non disdegnerebbero di dare una mano all’economia domestica e imprese che, non avendo spesso compiuto la trasformazione in public company e non potendo sempre contare sui finanziamenti del canale bancario, stentano a trovare risorse per accompagnare la loro crescita. I possibili ponti tra questi mondi sono numerosi e negli ultimi anni sono ulteriormente aumentati: dai “club deal”, aperti a pochi, alle iniziative di crowdfunding dove il singolo può “sponsorizzare” un’idea on line anche attraverso un contributo di pochi euro. 

Oggi è nostra responsabilità favorire ogni forma di dialogo tra queste due sfere. Perché siamo gli unici attori sul mercato che hanno la doppia visuale: conosciamo i nostri clienti, le loro esigenze di investimento, i loro profili di rischio e i loro orizzonti temporali che si devono sposare con investimenti che richiedono spesso pazienza e capacità di tollerare oscillazioni di breve periodo. Conosciamo anche le aziende e siamo da sempre giudicati sulla nostra capacità di valutarne la solvibilità, stimarne la sostenibilità nel tempo e analizzarne la capacità a generare valore. 

Questo senso di responsabilità si esprime anche attraverso iniziative di educazione, nate per rendere la nostra clientela più consapevole delle opportunità e delle minacce che questi mercati privati offrono. Il numero 2 di Be Private è una di queste. È soltanto attraverso questo percorso di conoscenza che potrà avvenire una simbiosi più proficua e che da “denaro morto” il nostro possa diventare “denaro vivo”, in grado di sostenere la crescita di un Paese che ne ha molto bisogno. Un (piccolo) tassello in più. Per amore dell’Italia?

Stéphane Vacher

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