La forza delle convinzioni

Se si sia di fronte a un vero e proprio cambio di paradigma dello scenario globale da un punto di vista, sia economico, sia politico, è una domanda che molti si stanno ponendo. Come leggere i mercati finanziari in tale frangente non è quindi semplice e richiede molta disciplina nella decisione delle strategie d’investimento. Kurt von Storch, fondatore insieme a Bert Flossbach dell’asset manager Flossbach von Storch, spiega a Be Private l’importanza di mantenere una prospettiva d’insieme, sempre e comunque, che permette di formulare una visione globale strategica di investimento, fondata su alcuni principi guida che aiutano a leggere le dinamiche di mercato.

Quando è nata Flossbach von Storch?

«La società è stata fondata da me e dal mio amico Bert Flossbach nel 1999 a Colonia. Avevamo studiato insieme all’università nella metà degli anni ‘80 e condiviso la passione per gli investimenti finanziari, un interesse allora non così diffuso. Una volta laureati, io andai negli Stati Uniti e Bert rimase in Germania. Ci rincontrammo, dopo un po’ di tempo, a Goldman Sachs, all’interno della divisione dedicata ai clienti privati, di cui entrai a fare parte nel 1991. Dopo sette anni di esperienza professionalmente proficua e dalla quale imparammo molto, decidemmo di fondare la nostra società e trasferirci da Francoforte a Colonia, la versione tedesca di Omaha, la città del Nebraska dove hanno sede quattro delle aziende della classifica Fortune 500, tra cui Berkshire Hathaway di Warren Buffet. Devo ammettere che non fu una decisione facile: eravamo appena sposati, avevamo una famiglia, un ottimo posto di lavoro e le nostre mogli nutrivano qualche perplessità in merito al nostro progetto. Ma Bert e io, figli di imprenditori, decidemmo di assumerci il rischio di iniziare una nostra attività: fondammo la nostra impresa. Agli inizi cominciammo a seguire alcuni clienti privati, sei famiglie di cui investivamo i patrimoni. Le azioni salivano e c’era molto entusiasmo sui mercati allora».

Ma poi ci fu lo scoppio della bolla dotcom. È stato un momento difficile da affrontare?

«Il mercato americano corresse del 50%, quello tedesco di oltre il 70%: fu un periodo indubbiamente ostico, ma per noi fu un test fondamentale per decidere esattamente ciò che volevamo essere e come desideravamo operare. Fu proprio allora che decidemmo di identificare le regole su cui basare i nostri processi d’investimento e, così facendo, elaborammo ciò che è tutt’oggi la nostra bussola: il pentagramma. Con questo termine identificammo, dandogli la forma di una figura geometrica, i cinque principi che avrebbero guidato la nostra attività: diversificazione, qualità, flessibilità, solvibilità e valore. Pensammo allora, e ne siamo tuttora più che mai convinti, che l’obiettivo che dovevamo darci era di preservare il patrimonio esistente e la capacità di accrescerlo. Si trattò di una scelta che venne fatta in un periodo complesso, ma credo che sia proprio nelle fasi di crisi che si è maggiormente concentrati su ciò che si vuole ottenere e su come rendere ciò possibile. Ecco perché, per rispondere alla sua domanda, iniziammo nel momento giusto, ma ci aspettò un compito arduo».

Perché prendeste quella decisione proprio allora?

«A dire la verità, la scelta fu fatta un anno e mezzo prima di fondare la nostra società. Occorse molto tempo per realizzare un progetto che era stato pensato attentamente e profondamente. Non fu quindi la bolla dotcom a determinare il nostro approccio agli investimenti, bensì un processo che era maturato insieme a noi e che faceva parte del nostro modo di gestire il business. Fu soprattutto la voglia di fare qualcosa di proprio che racchiudesse in sé la nostra idea imprenditoriale. Poi accadde che il tutto coincise con una grave crisi dei mercati finanziari, da cui fummo toccati per la debolezza delle borse, ma non perché avevamo investito in titoli che erano saliti per l’aspettativa di un’enorme crescita futura degli utili. Anzi, devo dire che allora fummo criticati dai nostri stessi clienti per non avere cavalcato l’onda di quelle imprese giovani di cui si acquistava il futuro, senza che ci fossero dei fondamentali. Nei nostri portafogli erano presenti aziende che erano considerate “noiose”, soprattutto se raffrontate a quelle per le quali c’era una vera e propria euforia. È vero, i nostri risultati apparivano modesti rispetto all’ascesa degli indici di mercato di quegli anni, ma le perdite riportate dopo il crollo delle borse furono molto più contenute. Farsi fagocitare dall’avidità è semplice, pensare di cambiare approccio può allettare per l’idea di maggiori guadagni, ma bisogna rimanere ancorati a principi guida. Le nostre decisioni d’investimento sono sempre state dettate dalla ricerca di società di qualità, con un solido piano aziendale e in crescita. Ciò che abbiamo appreso negli anni è che, se si creano situazioni estreme sui mercati, prima o poi avviene un riequilibrio. Ed è ciò che accadde durante la bolla dotcom».

Avete cambiato, negli anni, la struttura della vostra azienda?

«Nel 2002 avevamo in gestione circa un miliardo di euro, ma ci occupavamo ancora dei patrimoni di famiglie facoltose. È stato nel 2007 che iniziammo a strutturare alcuni fondi d’investimento pubblici, ora diventati la divisione più grande della nostra azienda, e che furono distribuiti per la prima volta al pubblico nel 2009. La filosofia d’investimento di questi prodotti è sempre stata di puntare al ritorno complessivo per gli investitori e di godere quindi della massima flessibilità nella gestione delle diverse asset class, oro compreso, attraverso un mix di approccio top-down e bottom-up. Nel 2014 fondammo l’Istituto di ricerca Flossbach von Storch, un osservatorio indipendente che si occupa tutt’oggi delle principali questioni economiche del momento. Quest’ultimo è stato per noi un passo importante, perché ci ha resi non solo più visibili, ma ha fatto in modo che la nostra voce fosse conosciuta e apprezzata per le competenze sviluppate. Negli anni è continuata la nostra espansione fuori dalla Germania e nel 2018 è avvenuta l’apertura di un ufficio anche in Italia, a Milano, nel 2018. Oggi siamo diventati un asset manager con 70 miliardi di euro in gestione e 400 dipendenti».

Come è articolato l’azionariato di Flossbach von Storch?

«Negli ultimi 12 mesi io e Bert abbiamo trasferito il 45% dell’azienda ciascuno a una fondazione di famiglia, ognuna con la propria governance. In questo modo l’azionariato e la parte operativa della società sono organizzati in modo tale che se a uno di noi due dovesse succedere qualcosa l’attività non solo non si interromperebbe, ma ci sarebbe continuità nelle quote di controllo, dando così stabilità ai nostri dipendenti e ai nostri clienti. Flossbach von Storch, lo ribadisco ancora, è una società indipendente che è strutturata per rimanere tale anche in futuro ed essere un affidabile business partner. Inoltre, abbiamo iniziato a programmare un “passaggio generazionale” all’interno dell’azienda, allargando il consiglio di amministrazione da tre a cinque persone. In aggiunta, siamo diventati giuridicamente una società europea e ciò ci permette di avere molta più flessibilità nella gestione delle nostre attività domestiche e all’estero. Penso che la nostra forza risieda nell’esprimere liberamente le nostre convinzioni e tradurle in decisioni d’investimento, senza dovere fare compromessi o avere conflitti d’interesse».

Tornando ai mercati finanziari, la fase che stiamo attraversando è così incerta da mettere in discussione il modello di crescita degli ultimi anni. Quanto sta avvenendo negli Usa sta creando molta tensione e apprensione per il futuro. Che cosa ne pensa?

«Credo ancora che il sistema, nel suo complesso, sia sufficientemente robusto da potere gestire questa fase e, nello specifico, quanto viene proclamato dallo Studio ovale. Mi potrei sbagliare, ma ritengo che il meccanismo dei pesi e contrappesi funzioni ancora negli Stati Uniti e a un certo punto qualcosa accadrà e riequilibrerà la situazione».

A che cosa si riferisce nello specifico?

«Intravedo tre dinamiche che, se dovessero esplicitarsi, potrebbero portare a una correzione della politica di Trump. La prima riguarda il mercato obbligazionario Usa: se i rendimenti dovessero salire molto, il costo di finanziamento del debito pubblico aumenterebbe e ciò avrebbe degli impatti negativi sull’amministrazione attuale. La seconda concerne i titoli azionari: una cartina tornasole del possibile successo delle politiche della Casa bianca. La terza sono le elezioni di metà mandato: tra un anno e mezzo i cittadini americani saranno chiamati a votare e, indirettamente, esprimere il loro apprezzamento su quanto fatto dal nuovo esecutivo. Non vi è dubbio che, nel mondo, in questo momento storico, vi sia una tendenza verso le autocrazie: in Cina Xi Jinping ha cambiato la costituzione per avere un terzo mandato, in Russia sono mutate le regole per permettere a Putin di rimanere al potere e ora anche negli Stati Uniti si specula su un possibile cambiamento per rendere possibile un terzo incarico presidenziale. Tuttavia, l’America è la patria della democrazia, nonostante quanto avvenuto nel 2021 a Capitol Hill. Francamente, non vedo le ragioni per cui si debba iniziare una guerra commerciale o decidere per la deglobalizzazione, visto che gli stessi Stati Uniti hanno beneficiato della crescita economica degli ultimi anni. I mercati finanziari rimarranno sotto pressione, sino a quando non ci sarà una svolta e, badi bene, le valutazioni non sono così basse come lo erano nel 2002-2003 dopo la fine dell’esuberanza internet». 

Si è assistito però anche a un forte indebolimento del dollaro…

«L’andamento di una valuta è legato alla fiducia che si ha nei confronti del paese di riferimento. Ciò che sta avvenendo è il riflesso delle decisioni prese da un’amministrazione che ha avuto un ampio mandato e bisognerà vedere tra un anno e mezzo se lascerà soddisfatti i suoi sostenitori. Ma si ricordi, Donald Trump non vuole essere un perdente. Al momento la situazione è incerta, ci sono delle ricadute e una di queste riguarda proprio il dollaro, perché riflette le politiche di chi governa un paese».

E poi c’è il problema del debito, che è cresciuto a livello mondiale. Tutto ciò ha in qualche modo cambiato il vostro stile d’investimento?

«Direi proprio di no, il nostro modus operandi è rimasto lo stesso. Poiché non ci riteniamo in grado di predire il futuro, è la nostra filosofia espressa nel pentagramma che ci guida nelle decisioni d’investimento nel lungo periodo. Innanzitutto, bisogna diversificare e puntare alla qualità, come quando si acquista un’opera d’arte: se è di valore, rimane tale nel tempo. Le faccio un altro esempio, utilizzando una metafora. Si può portare a spasso un cane al guinzaglio; a volte quest’ultimo può camminare al nostro fianco, altre rimanere dietro di noi o correre davanti a noi, ma la cosa importante è che venga mantenuta la direzione dove si vuole andare e ciò dipende dalla persona che porta a spasso il cane. Ecco la stessa cosa vale per le azioni: se si sceglie un’azienda solida, ci possono essere momenti in cui i titoli si apprezzano o si deprezzano, poco o tanto, l’importante è che crescano nel tempo. Un governo può influenzare il passo di un cane, ma non quello del suo padrone. Per noi l’individuo che porta a spasso il cane è la parte razionale del nostro business, mentre l’animale è quella emotiva. In merito alla sua considerazione sul debito, non posso che concordare ed è questa la ragione per cui, negli ultimi 20 anni, abbiamo sempre allocato tra il 5% al 10% i nostri investimenti in oro, che consideriamo alla stregua di una valuta. È in competizione con tutte le altre divise e, sino a che il livello di indebitamento dei paesi aumenta, ha senso diversificare nel metallo giallo».

Perché l’oro?

«L’oro è la moneta di ultima istanza, che mantiene (o addirittura aumenta) il suo valore quando il sistema finanziario non funziona più. Il metallo prezioso rappresenta la nostra assicurazione contro eventuali crisi di un sistema finanziario fragile. È una posizione strategica, in altre parole un investimento a lungo termine e, guardando in retrospettiva, la nostra scelta ha funzionato. Quando nel 2003 abbiamo inserito per la prima volta l’oro nella nostra strategia d’investimento, il motivo principale era stato il crescente potere d’acquisto delle popolazioni di paesi amanti del metallo giallo, come l’India e la Cina. Nel 2008 il prezzo dell’oro è crollato del 20%, a causa del ristagno della domanda sulla scia dell’incombente grande crisi finanziaria. Ci si interrogava sull’opportunità di vendere l’oro, ma noi abbiamo incrementato la posizione. Riteniamo che, in un sistema finanziario fragile, sia opportuno avere un asset class che possa definirsi come bene rifugio».

Ma è difficile misurare il valore dell’oro. Allora perché non diversificare nelle criptovalute?

«È vero, non c’è un modo per misurare il valore dell’oro e deciderne il prezzo, ma è stato utilizzato per centinaia di anni come moneta di scambio ed è un modo per offrire ai nostri clienti la possibilità di avere un potere d’acquisto. Per quanto riguarda le criptovalute, invece, non abbiamo un metodo per valutarle e, di conseguenza, abbiamo deciso di non investirvi. In aggiunta, credo che siano sempre più legate all’andamento dei mercati».

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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