Sempre più risparmio nell’economia reale in Italia

Giancarlo Giudici, School of Management del Politecnico di Milano

Negli ultimi anni in Italia si è dibattuto molto sull’importanza di sostenere l’economia reale, con ciò intendendo il sistema delle imprese che producono beni e servizi, con particolare riguardo alle Pmi, che rappresentano l’ossatura dell’industria nazionale e che hanno maggiore difficoltà nell’accedere a finanziamenti rispetto alle grandi aziende. Secondo le stime di Prometeia, le piccole e medie società impiegano l’82% dei lavoratori presenti sul territorio italiano e rappresentano il 92% delle imprese attive. La pandemia Covid-19, che ha devastato alcune attività importanti per l’economia italiana, come il turismo e la ristorazione, ha ulteriormente accentuato l’attenzione sul tema, poiché è molto importante capire quali possono essere gli strumenti di supporto più adatti per sostenere le Pmi nella ripartenza.

Secondo gli ultimi dati elaborati da Banca d’Italia nella pubblicazione “Conti finanziari”, aggiornati al terzo trimestre 2020, le società non finanziarie italiane potevano contare su prestiti a lungo termine erogati da soggetti bancari per 508 miliardi di euro, più finanziamenti a breve termine per altri 169 miliardi, cui si sommano prestiti da altre società finanziarie per 199 miliardi. Il ricorso al mercato mobiliare, con l’emissione di obbligazioni, rappresenta una fonte di finanziamento meno utilizzata e totalizza 144 miliardi di euro.

Dall’altra parte, è ben noto che nei conti correnti delle banche italiane giace un’enorme liquidità parcheggiata dai risparmiatori, i quali non trovano adeguate opportunità di investimento sul mercato, vuoi perché gli impieghi tradizionali a basso rischio, come i titoli di stato e le obbligazioni investment grade, offrono rendimenti nulli o anche negativi, vuoi perché la pandemia ha incrementato l’incertezza e l’avversione al rischio. Sempre secondo i dati di Banca d’Italia, nel terzo trimestre 2020, i depositi a vista detenuti dalle famiglie nelle banche italiane sfioravano la cifra record di 1.000 miliardi di euro, in aumento di oltre 70 miliardi nell’arco dei 12 mesi precedenti. Intercettare queste risorse rappresenta una sfida prioritaria per il mondo del risparmio gestito. Se anche una piccola parte di questa liquidità fosse canalizzata verso le Pmi per finanziare nuovi investimenti, si potrebbe creare un effetto volano importante, con la creazione di nuovi posti di lavoro, guadagni di produttività e incremento dell’attività innovativa. Ciò, però, richiede una nuova consapevolezza, sia per i risparmiatori, sia per i consulenti finanziari, sia per i gestori; investire in titoli di una Pmi non quotata (private capital) è profondamente diverso che scegliere obbligazioni e azioni di grandi e medie imprese quotate in borsa, che sono facilmente liquidabili nel breve termine. D’altra parte, è proprio questo il motivo per cui tali opportunità offrono premi di rendimento interessanti in un’ottica di medio-lungo termine.

Secondo gli analisti di Preqin, il private capital è un mercato destinato a crescere sensibilmente nei prossimi anni e arriverà a un valore di asset under management a livello mondiale di oltre 40.000 miliardi di dollari. Il potenziale di sviluppo in Italia è sicuramente interessante, vista la tradizionale dipendenza delle Pmi italiane dal credito bancario. Non a caso molte Sgr stanno proponendo ai propri clienti prodotti dedicati.

Gli incentivi pubblici

Sostenere l’accesso al capitale per le Pmi è un obiettivo ben chiaro nell’agenda dei policymaker, che però si deve coniugare con la tutela del piccolo risparmiatore. Negli ultimi anni è diventata operativa una serie di incentivi e di novità che offrono opportunità interessanti:

I Pir e i Pir alternativi: si tratta di contenitori fiscali che a determinate condizioni assicurano ai risparmiatori l’esenzione dalla tassazione sui capital gain e sui proventi finanziari come cedole e dividendi se l’investimento è mantenuto per cinque anni. Il Decreto Rilancio del 2020 ha introdotto un plafond addizionale dedicato agli strumenti illiquidi e alle Pmi (Pir alternativi). È previsto che per almeno i due terzi dell’anno solare si investa non meno del 70% del valore complessivo del portafoglio in strumenti finanziari emessi da imprese quotate diverse da quelle inserite negli indici Ftse Mib e Ftse Mid Cap di Borsa Italiana o in indici equivalenti di altri mercati regolamentati esteri oppure in strumenti finanziari emessi da imprese non quotate oppure ancora in prestiti/crediti erogati alle imprese. Il limite di concentrazione per ogni strumento è il 20%. Il D.L. 104/2020 ha stabilito che il massimo  investibile è 300.000 euro all’anno, con un valore massimo cumulato di 1,5 milioni in cinque anni. Va segnalato che la Legge di stabilità per il 2021, con il fine di offrire un paracadute rispetto a eventuali danni causati dalla pandemia sui conti economici delle imprese, ha introdotto un credito d’imposta per le eventuali perdite e/o minusvalenze derivanti dalla sottoscrizione di un Pir effettuata a partire dal 1° gennaio 2021 e per gli investimenti fatti nel corso del 2021.

Le detrazioni fiscali per l’investimento nelle startup e nelle Pmi innovative: sempre il Decreto Rilancio ha elevato fino al 50% la detrazione fiscale per gli investimenti nel capitale azionario di startup (con un massimale di  100.000 euro) e Pmi innovative (con un massimale di 300.000 euro) a condizione che l’investimento sia mantenuto per tre anni. 

Gli Eltif (European long term investment fund), un nuovo strumento introdotto a livello europeo dal Regolamento (Ue) 2015/760 per dare accesso agli investimenti illiquidi anche agli investitori retail. Si tratta di fondi chiusi destinati a finanziare le Pmi non quotate o quotate, ma con capitalizzazione sotto 500 milioni di euro che si stanno diffondendo nel mercato italiano. Nel solo 2020 sono stati ben nove gli Eltif autorizzati in Italia.

Approfondiamo quindi le due principali opportunità di investimento nel private capital oggi disponibili: il capitale azionario (private equity) e il capitale di debito (private debt). Si tratta di due mercati che nei prossimi anni saranno in forte crescita secondo gli analisti in tutto il mondo (si vedano le figure riportate).

Il private equity in Italia

Il private equity consiste nella sottoscrizione di capitale azionario di imprese non quotate, effettuata da soggetti specializzati (finanziarie e fondi di investimento). 

L’obiettivo è individuare imprese con potenzialità di crescita futura che siano in fase di start-up (in tal caso si parla specificatamente di venture capital) o già consolidate. L’investitore si affianca all’imprenditore, di solito sottoscrivendo una quota di minoranza, supportando la crescita e portando valore aggiunto nella gestione manageriale. Dopo alcuni anni (di solito cinque-sei) l’investitore dismette la partecipazione con la cessione a terzi o in occasione della quotazione in borsa dell’impresa, ottenendo la sua plusvalenza. I fondi di private equity sono infatti di solito fondi chiusi con un ciclo di vita limitato, che parte dalla fase di sottoscrizione a quella di investimento e si conclude con la ridistribuzione dei proventi.

Secondo i dati di Aifi, l’Associazione italiana del private equity venture capital e private debt, nel primo semestre 2020 il private equity ha mobilitato in Italia 1,88 miliardi di euro investiti in 92 aziende, in discesa rispetto al 2019. I primi dati sul secondo semestre evidenziano però un recupero; in particolare sono aumentate le operazioni di venture capital nelle start-up anche grazie al coinvestimento di soggetti pubblici e della Cassa Depositi e Prestiti. Sempre secondo Aifi, l’Irr (Internal rate of return) annuale lordo generato per gli investitori fino al 2018 è stato mediamente il 16,9%. 

Il private debt in Italia

Fino a pochi anni fa in Italia prestare denaro alle imprese era attività esclusivamente riservata alle banche e l’unica fonte di credito alternativa era rivolgersi al mercato mobiliare attraverso l’emissione di obbligazioni, opportunità accessibile più che altro alle imprese quotate. Solo da poco la normativa ha consentito di aprire nuovi canali, favorendo la nascita del mercato del private debt, che eroga prestiti alle Pmi anche in questo caso sul medio-lungo termine.

Oggi le Pmi possono ottenere direttamente credito da fondi di investimento specializzati (direct lending), da portali Internet attraverso il social lending e possono collocare titoli obbligazionari (minibond) sottoscritti da investitori professionali, banche e fondi, per i quali esiste anche un mercato borsistico specifico (ExtraMot Pro3). Per una Pmi approfittare di questa opportunità non serve necessariamente per ridurre il costo del capitale, ma è anche la possibilità di acquisire competenze nuove nel rapporto con il mercato finanziario, segnalare la propria qualità e familiarizzare con il private capital senza mettere in discussione l’assetto proprietario dell’impresa.

L’Osservatorio minibond del Politecnico di Milano, che monitora tutte le emissioni di titoli obbligazionari di taglia inferiore a 50 milioni di euro, ha individuato nel 2020 194 collocamenti per un controvalore totale di 920 milioni di euro. Se estendiamo i numeri a tutto il private debt, includendo il direct lending, secondo i dati di Aifi possiamo sommare investimenti ulteriori per circa 700 milioni. Nel 2020, le emissioni sono state sostenute anche dalle garanzie pubbliche, concesse da soggetti come il Fondo di garanzia dello stato, la Sace, i consorzi fidi e le finanziarie regionali. Un contributo significativo nell’anno trascorso è arrivato dalle cosiddette operazioni di basket bond, in cui più imprese collocano titoli di debito, che vengono sottoscritti da società di cartolarizzazione che li utilizzano come sottostanti per creare altri titoli, in cui è possibile investire. La stessa tecnica viene applicata ai prestiti concessi a imprese, ma anche a individui, attraverso i portali di social lending su internet, che possono essere cartolarizzati per ottenere opportunità di investimento in cui il rischio è spalmato su centinaia di creditori.

In definitiva, volendo riassumere i vantaggi dell’investire nel private capital, potremmo citare:

1) i rendimenti attesi competitivi, grazie al premio di illiquidità rispetto ad azioni e obbligazioni quotate;

2) il contributo al finanziamento dell’economia reale e delle Pmi italiane, in una situazione di emergenza per il Paese;

3) la diversificazione dei portafogli, sfruttando la decorrelazione con altre asset class e riducendo la volatilità; 

4) i vantaggi fiscali offerti dalla nuova normativa sui Pir alternativi.

Giancarlo Giudici

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