Tutte le mosse di Pechino

È ormai indubbio che la Cina sta proseguendo con molta forza il suo programma di espansione non soltanto economica, ma anche politico-militare. È oggi questa la vera questione di geopolitica che influenza, e condizionerà sempre di più, l’economia del pianeta e i rapporti di forza tra nazioni. A parlarne è Harish Natarajan, head of economic risk di Ake International.

Vede un aumento del ruolo della Cina a livello globale e pensa che ciò possa avvenire a discapito degli Stati Uniti?

«È molto chiaro che, da qui ai prossimi 20 anni, la Cina aumenterà la propria influenza a livello globale. In primo luogo, senza ombra di dubbio, questo potere si manifesterà nella sfera economica: Pechino, se vuole diventare la più grande potenza al mondo o essere annoverata tra le prime due, ha ben chiara l’importanza di instaurare solidi legami commerciali con le diverse nazioni. Quanto ha fatto sinora la Cina va in questa direzione e la Belt and Road Initiative, nata con l’obiettivo di espandere la sua influenza partendo dall’Asia, dove si trovano i suoi maggiori partner commerciali, per estendersi all’America Latina, all’Africa Subsahariana e anche all’Europa, ne è un chiaro esempio. Questo trend continuerà insieme all’aumento dell’importanza dell’economia cinese e, per questa ragione, sarà imperativo per Pechino stringere i legami con il più ampio numero di paesi. Che cosa ciò comporti per gli Usa è una questione più complessa da affrontare. Infatti, una delle maggiori preoccupazioni della Cina è l’attitudine degli Stati Uniti, aumentata con l’amministrazione di Donald Trump, a impedirle l’esercizio di un ruolo più significativo sullo scenario internazionale. Da un lato, gli americani vorrebbero controllarne l’ascesa e i rischi a essa connessi, dall’altro, i cinesi si interrogano sul perché di questo atteggiamento. Sembra quasi che gli Stati Uniti considerino la crescita cinese come un fenomeno negativo per il proprio paese, timorosi di uscirne indeboliti soprattutto nei rapporti con le altre nazioni, che la Cina ha approcciato, a sua volta, per non perdere terreno dal punto di vista commerciale. Si pensi a quanto è successo con il Pakistan, cui gli Usa sono sempre stati anche militarmente vicini sin dalla sua indipendenza, che ha subito l’influenza cinese per la prossimità geografica e che si è avvicinato molto alla Terra di mezzo a discapito degli Stati Uniti. Pechino aumenterà la sua influenza nel mondo, forse non necessariamente a svantaggio di Washington, ma è anche consapevole che il condizionamento americano in alcuni paesi giocherà a suo sfavore e viceversa».

Qual è la sua valutazione delle relazioni tra Cina ed Europa?

«Avere strette relazioni con l’Unione Europea è economicamente molto vantaggioso: è un grande mercato dove la Cina può vendere i propri prodotti ed è anche una piazza importante dove acquistare. Uno dei timori cinesi è la vicinanza dell’Europa a Washington per una serie di motivazioni storiche. Tuttavia, la politica estera della Ue vuole maggiore indipendenza dagli Usa, per avere la possibilità di rapporti più stretti con la Cina, mentre gli americani sono preoccupati per la loro sicurezza e per quella delle loro basi militari sul continente europeo. Ed è proprio per questo motivo che gli Usa non possono ignorare gli sviluppi dei rapporti commerciali di Bruxelles con Pechino, in particolare quando riguardano la realizzazione di importanti e cruciali infrastrutture, quali le reti per le telecomunicazioni, e vedono coinvolte aziende tecnologiche cinesi. Le posizioni all’interno dell’Unione, però, non sono uniformi. Per esempio, l’Olanda, con un atteggiamento molto pragmatico, accetta la presenza delle aziende cinesi per applicazioni di bassa tecnologia, ma non per quelle di alta tecnologia, mentre gli Stati Uniti sostengono che la Cina non dovrebbe essere per nulla coinvolta in alcun progetto legato alle telecomunicazioni. L’Europa sta cercando di delineare un percorso all’interno del quale definire le proprie relazioni con la Repubblica Popolare, compito non facile, vista la pressione proveniente dagli Stati Uniti. Direi che gli interessi principali dell’Ue, al di là delle singole differenze dei vari membri, perseguono un unico obiettivo: stringere le relazioni con il Dragone mantenendo buoni rapporti con gli Usa».

Ha riscontrato un cambiamento nell’attività diplomatica della Cina?

«Di recente, il ruolo della Cina come mediatrice è leggermente cresciuto, funzione quest’ultima che tradizionalmente non le appartiene, visto che, nel passato, ha sempre evitato di prendere posizione e di essere coinvolta in alcun tipo di scontro globale. Tuttavia, negli ultimi quattro anni, Pechino ha ridefinito la propria politica estera, asserendo che un conflitto, in qualunque luogo avvenga, è da considerarsi negativo per la Cina e rimarcando la volontà di mostrarsi come paese che punta a mantenere lo status quo. Una svolta, in questo senso, è stata la sua mediazione nei negoziati tra Arabia Saudita e Iran, anche se forse non è il caso di enfatizzare troppo il ruolo che ha ricoperto, visto che i rapporti tra i due paesi mediorientali avevano già iniziato a migliorare negli ultimi due anni. Pechino ha certamente attirato l’attenzione internazionale nel ricoprire questa funzione, ma la sua presenza non ha permesso un enorme progresso nel gestire le tensioni sottostanti. Analoghe considerazioni si possono fare in merito alla guerra tra Russia e Ucraina, dove non è ancora chiaro quanto la Cina voglia intervenire nel merito. Infatti, per agire come mediatore, bisogna ottenere la fiducia dalle parti coinvolte, avere ben chiari gli obiettivi che si vogliono perseguire e le conseguenze delle decisioni prese. È inoltre necessario sapere che cosa fare nel caso che, una volta raggiunto un accordo, una delle parti firmatarie decida di non rispettarlo e quali potenziali misure di ritorsione adottare nei confronti di quest’ultima. Tutto ciò non è stato ancora esplicitato da Pechino, che ha sì presentato un piano per la trattativa tra Russia e Ucraina, ma che è molto vago e non chiarisce su quali punti i due paesi potrebbero accordarsi. L’obiettivo cinese è mantenere buone relazioni. In generale, la capacità di fungere da mediatore richiede la ricerca, almeno nel breve periodo, di una soluzione potenziale. Nel caso in questione, se quest’ultima fosse trovata, vorrebbe dire che la Cina dovrebbe essere in grado di fare rispettare i termini dell’accordo, ma non credo che sia nella condizione di agire in modo particolarmente efficace in questo senso. Tutti si rendono conto, soprattutto nell’Unione Europea, che Pechino avrebbe un importante ruolo da svolgere, se dovesse ricoprire la funzione di mediatrice, ma non si è ancora giunti a questa condizione».

Tuttavia, il primo dei 12 punti del piano di pace cinese parla di “rispettare la sovranità di tutti i paesi”. Non ritiene che questa affermazione sia molto esplicita?

«È un’affermazione che la Cina ha fatto all’inizio della guerra, spiegando di credere nell’integrità territoriale, probabilmente per motivazioni che vanno ricercate in questioni domestiche che pendono su Pechino, quali Hong Kong e Taiwan. Quindi, non c’è alcun elemento di novità rappresentato dal primo punto del piano di pace: la Cina non ha mai sostenuto la disgregazione di una nazione e lo ha sempre fatto per motivi propri».

Per essere un mediatore credibile bisogna avere anche un track record?

«Un track record lo si costruisce e, per fare ciò, bisogna che ci sia un inizio. La Cina ha cominciato a farlo e i negoziati tra l’Arabia Saudita e l’Iran ne sono un esempio. Ma ciò non basta per ricoprire il ruolo di mediatore ed essere considerati credibili: è un percorso che, una volta intrapreso, comporta diversi impegni perché, raggiunto l’accordo, bisogna essere pronti a mantenere la propria posizione.  La vera questione è quali vantaggi avrebbe la Cina, così come qualsiasi altro paese, nel ricoprire il ruolo di mediatore, ad esempio, tra Russia e Ucraina. È plausibile supporre che se, grazie alla leadership cinese si raggiungesse un’intesa e questa venisse violata dalla Russia, la Cina smetterebbe di approvvigionarsi di gas e petrolio da Mosca? La risposta è probabilmente negativa. Quindi, indipendentemente da qualsiasi track record, esistono situazioni di fronte alle quali predomina l’interesse nazionale: tutto dipende da quali sono le motivazioni che permettono a un accordo non solo di essere raggiunto, ma anche rispettato».

Ritiene che questo crescente ruolo della Cina possa disturbare gli Stati Uniti?

«Il motivo per cui la Cina sta rafforzando le sue relazioni a livello internazionale è principalmente di carattere economico e, parzialmente, per ragioni politiche quando la questione riguarda Taiwan. Sino a 30 anni fa, il paese era una grande nazione, ma non un’importante economia, come di fatto è diventata sempre di più con il trascorrere del tempo. L’interesse principale della Cina è, in larga misura, il mantenimento dello status quo all’interno di un ordine mondiale che è funzionale al paese. Tuttavia, ciò non significa che non vi siano obiettivamente alcuni rischi per gli Stati Uniti. Siamo stati abituati a un mondo caratterizzato dall’egemonia americana, nel quale gli Usa hanno avuto un forte potere negoziale da più punti di vista: economico, politico e militare. Oggi, però, l’America non è più l’unica superpotenza al mondo. Usa e Cina si contendono gli alleati e sono preoccupati dell’ascesa l’uno dell’altro, ma la domanda da porsi è se questi timori abbiano una ragione d’essere. Ciò che si può rilevare è che la Cina non sta cercando di esportare la propria ideologia e opera in un sistema capitalistico, nonostante ci possano essere problemi su alcuni fronti. Sebbene non ci sia nulla che impedisca una cooperazione tra i due stati, ciò che sta succedendo è che gli Usa e la Cina si temono a vicenda e, per tale ragione, si assiste a un innalzamento dei toni, con dinamiche che si esplicitano con diverse modalità. 

Sono note le dichiarazioni crescenti contro Pechino da parte del Congresso e dell’amministrazione americana, mentre la Cina, se è vero che mantiene un profilo più defilato nelle esternazioni pubbliche, non è certo meno incisiva nell’impedire agli Stati Uniti di conservare la loro posizione dominante, in particolare nella regione dell’Asia e del Pacifico. Sono scontri che non conducono a nulla e, in verità, credo che, obiettivamente, ci sarebbero invece diversi vantaggi da cogliere per entrambi i paesi».

Non intravede nessuna ideologia nella politica cinese così come è stata anche recentemente esplicitata dal presidente Xi Jinping?

«Non porrei la questione in questi termini, tranne che per un’unica grande eccezione: l’idea della “one China policy”, cui si sommano alcune caratteristiche che appartengono storicamente al paese. Ciononostante, non significa che si stia esportando un’ideologia. Alcuni parlano di capitalismo statale, ma non lo definirei un’ideologia, bensì un modello economico. C’è poi la questione di Taiwan che, all’interno della “one China policy”, viene considerata parte integrante della Cina, ma ciò non comporta che ci saranno azioni militari per riunificare il Paese. Più che altro, credo ci sia il timore, da parte del Partito comunista cinese, che si possa perdere questa idea di unità e il valore a essa associato: è questa la ragione che porta la leadership a continuare a reiterarne l’importanza e ad assicurare continua prosperità e crescita alla nazione. Da un punto di vista domestico, c’è un leggero cambiamento: anche se la posizione di Xi Jinping non è mai stata politicamente così forte, non sembra che goda dello stesso consenso che aveva in passato».

Che cosa potrebbero fare gli Stati Uniti per contrastare l’ascesa della Cina?

«Penso che tutti dovrebbero essere preoccupati se la Cina diventasse la superpotenza dominante. Non è detto che ciò avvenga nei prossimi 10 anni, ma la realtà è che la nazione ha una popolazione di 1,4 miliardi di persone e sta crescendo molto più rapidamente degli Usa, grazie anche alla presenza di aziende a controllo pubblico. Stiamo andando verso un mondo dove è difficile non vedere, nei prossimi 50 anni al massimo, la Cina diventare la più grande potenza economica, ma anche politica, dato che i due aspetti sono solitamente correlati l’uno all’altro. È una realtà che si sta progressivamente palesando, visto l’evolversi della situazione, ovviamente senza escludere che si possa assistere anche a un collasso del Partito comunista cinese. A volte, parlando con persone dell’amministrazione americana, mi sono state riportate diverse preoccupazioni in merito allo sviluppo economico cinese, il cui modello è profondamente cambiato dal 1978 a oggi. Infatti, negli anni, la Cina ha subito una trasformazione: da paese dominante nella catena di produzione di beni a basso valore aggiunto ha conquistato una sempre più forte posizione in quella ad alto valore aggiunto. È lecito, dunque, interrogarsi, e non solo da parte americana, che cosa potrebbe succedere se la Terra di mezzo diventasse dominante in questo ruolo e la questione è di carattere strategico. Gli Stati Uniti hanno compreso l’esistenza di questa minaccia e hanno iniziato a promulgare una serie di misure, come il bando sui semiconduttori, dove sanno di avere una posizione di forza, particolarmente efficace nel colpire il progresso tecnologico della Cina e rallentarne lo sviluppo. Ci sono altre aree in cui potrebbero intervenire, ma hanno bisogno del sostegno di altri stati, che potrebbe essere ottenuto attraverso politiche di ricompensa che risultino più interessanti di quanto faccia il Dragone. Ciononostante, tutto ciò che potranno fare sarà limitato se, fra 20-30 anni, non saranno più la prima economia al mondo. È vero che in alcune parti del globo c’è un sentimento anti-cinese, ma, dopo la guerra in Iraq, lo stesso è emerso anche nei confronti degli Stati Uniti. Vale quindi veramente la pena contrastare l’ascesa della Cina? Farlo potrebbe portare alcuni vantaggi temporanei, ma con diversi rischi di errore di calcolo che potrebbero sfociare in gravi incidenti ed entrambe le potenze non vogliono uno scontro delle loro forze armate (vedi le esercitazioni militari cinesi intorno all’isola di Taiwan)».

Le tensioni tra Cina e Usa sono quindi destinate a rimanere? E che cosa farà l’Europa?

«Penso che tra i due paesi le tensioni rimangano e saranno strutturali. Per quanto riguarda l’Europa, continuerà a essere più vicina agli Usa nel futuro prossimo, ma non tanto da allontanarsi troppo dalla Cina, alla ricerca di un equilibrio difficile da raggiungere, che può essere mantenuto a meno che scoppi un incidente grave che lo possa pregiudicare. Ma, attenzione, Pechino è ben consapevole che non può tirare troppo la corda su temi che possono essere molto delicati e condizionare negativamente l’opinione degli altri stati nei suoi confronti. La sua posizione in merito al conflitto in Ucraina è un chiaro esempio: per quanto la Cina continui a comperare beni dalla Russia, non le ha fornito armi o sostegno militare».

 

Pinuccia Parini

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Responsabile Clienti Istituzionali Fondi&Sicav

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