Un successo globale

In occasione del G-20 tenutosi lo scorso settembre a Firenze, il commissario europeo all’agricoltura, Janusz Wojchiechowski, ha pronunciato parole di grande elogio per il settore agricolo italiano, parole che per certi versi suggellano l’ascesa quasi miracolosa di un comparto che fino a pochi anni fa veniva considerato uno dei principali punti di arretratezza del nostro sistema. Colui che è de facto il ministro dell’Ue per le politiche agricole ha sottolineato il ruolo cruciale del tessuto nazionale dei coltivatori diretti nel garantire gli approvvigionamenti alimentari durante la pandemia. Ciò, nonostante la grandezza alquanto ridotta delle imprese agricole nazionali, la cui dimensione media si colloca intorno a 11 ettari, a fronte di una media continentale di circa 16. Quest’ultima cifra poi impallidisce rispetto ai numeri americani, che sono quasi 12 volte tanto. 

GRANDE PRODUTTIVITÀ

Nonostante l’atavico nanismo italiano, dunque, il nostro agroalimentare si contraddistingue, pur con la varietà del caso, per una produttività estremamente elevata. A supporto di questa tesi parlano diversi dati. Ad esempio, la Coldiretti, in occasione dell’ultimo Tuttofood a Milano, ha sottolineato che complessivamente la filiera dell’agroalimentare vale in Italia qualcosa come 575 miliardi di euro e dà lavoro (direttamente e indirettamente) a 4 milioni di persone su circa 22,8 milioni complessivamente occupate nel Paese. Il sistema si articola poi in 740 mila aziende agricole, 70 mila imprese di trasformazione, 330 mila esercizi dediti alla ristorazione e 230 mila punti vendita al dettaglio. Questa ricchezza, così capillarmente diffusa nell’intera Penisola, da una parte garantisce alla popolazione la fornitura di prodotti di alta qualità, il cui primo e più importante risultato è la minore incidenza in Italia di diverse malattie legate a una cattiva alimentazione rispetto alla media Ocse. Dall’altra, va ad alimentare da diversi anni quella che forse è attualmente la storia di maggiore successo nel panorama delle nostre esportazioni.

Innanzitutto nel 2019 ci posizionavamo al quinto posto fra i paesi più visitati al mondo, con 65 milioni di arrivi. Praticamente tutte le ricerche al riguardo mostrano che godere della nostra cucina rappresenta una delle motivazioni principali per programmare una vacanza nel Belpaese. Se poi analizziamo i dati del commercio estero si scoprono cifre  eccellenti, tali da rendere ragionevole l’affermazione secondo cui l’agro-alimentare ha rappresentato, insieme al farmaceutico, l’autentica storia di successo dell’economia italiana in questo secolo. 

CRESCITA ANCHE CON LA PANDEMIA

L’anno scorso, con il quadro economico che ben sappiamo, le esportazioni di questo vasto insieme di prodotti hanno comunque registrato un incremento (+1,9%), toccando la cifra record di 46,1 miliardi di euro. Tutto ciò a fronte di un calo piuttosto pesante delle vendite totali verso il resto del mondo, che hanno visto una discesa del -9,7% rispetto al 2019, registrando un valore complessivo di 433 miliardi di euro. In pratica la nostra filiera del cibo e delle bevande ha generato nel 2020 più del 10,6% delle nostre esportazioni. La traiettoria ascendente è continuata nel 2021, con un +11,2% messo a segno nel primo semestre del 2021. Salvo problemi dovuti a colli di bottiglia vari e assortiti e a un’eventuale nuova fiammata della pandemia, quest’anno dovrebbe venire superata quota 50 miliardi, con quasi 40 attribuibili ai prodotti trasformati e circa 11 al primario. 

E la progressione degli ultimi anni è stata impressionante: solamente nel 2010 il totale era poco più della metà di oggi (27,8 miliardi). Da allora non si è mai avuto un anno di cali, con un Cagr fra il 2010 e il 2020 pari a +5,2%. Al di là dei freddi numeri, a rendere particolarmente cruciale questo segmento della nostra economia è il fatto di essersi posizionato come uno dei pochi e chiari vincitori emersi dall’imponente evoluzione degli stili di vita portati dalla globalizzazione. Il mondo, dai paesi emergenti a quelli sviluppati, dalle classi sociali più abbienti e anziane ai millennial, ama e desidera il made in Italy a tavola. È interessante notare, infatti, quanto emerge dalle ricerche di Coldiretti, ossia il fatto che durante la pandemia, con bar e ristoranti chiusi, sempre più persone hanno cominciato a cucinare piatti della tradizione italiana a casa propria.

Agroalimentare e finanza, l’alleanza necessaria

Come spesso accade in Italia, però, l’ascesa di determinati settori avviene più per il concatenarsi di una serie di eventi dovuti a una forte diffusa iniziativa individuale che a un’azione del sistema. Sicuramente la filiera dell’agroalimentare italiana tuttora è caratterizzata da dimensioni molto piccole e spesso da una struttura aziendale debole e molto semplificata. Sicuramente ciò ha portato anche un maggiore focus sulla qualità di prodotti legati in maniera indissolubile al territorio di appartenenza. Al contempo, spesso il comparto dei servizi finanziari, banche in primis, si è dimostrato sordo e miope nei confronti delle necessità di un settore così vitale dell’economia italiana: l’offerta di finanziamenti e di varie soluzioni finanziarie è stata, specialmente in questi ultimi anni di crescita epocale, a dir poco inadeguata.

Al giorno d’oggi, grazie anche a trasformazioni tecnologiche senza precedenti, ci troviamo di fronte alla concreta possibilità di colmare questo deficit. L’agricoltura e l’industria alimentare oggi costituiscono uno dei punti nevralgici di un trend destinato a influenzare l’intero mondo nei prossimi anni. Nel concreto, la popolazione mondiale continua a crescere, soprattutto nei mercati emergenti. Questi ultimi, pur fra alti e bassi, stanno registrando significativi aumenti di reddito, che inevitabilmente si accompagnano a una maggiore e più sofisticata richiesta di prodotti alimentari. Un simile sviluppo apre ovviamente questioni ambientali ineludibili. 

PRODURRE DI PIÙ

Una sintesi interessante al riguardo viene elaborata da Massimo Canalicchio, che ha seguito la  realizzazione per FarminFin di un progetto, elaborato dall’associazione “Agricoltura è Vita”, che aiuta a conoscere e utilizzare gli strumenti finanziari: «Il pianeta si avvia ad avere, entro il 2050, una popolazione di 10 miliardi di abitanti, con tutto ciò che ciò comporterà. In una situazione di cambiamento climatico drammatico, dovremo produrre di più e in maniera sostenibile. Questa operazione non sarà possibile senza innovazione. E l’innovazione arriva sicuramente dalle nuove generazioni. Questo gap generazionale ci impegna molto, perché la terra costituisce anche una seconda opportunità per chi è fresco di laurea, ma in settori diversi da quelli tradizionalmente legati all’agricoltura. D’altra parte, chi ha più esperienza è prezioso per la salvaguardia della biodiversità. Perché conosce molto bene prodotti che potrebbero ancora essere utili, sia in termini di mercato, sia, per esempio, dal punto di vista della salute». 

L’agroalimentare italiano deve dunque affrontare l’annosa questione del passaggio generazionale dell’impresa, dovendo nel contempo riuscire ad affrontare le maggiori sfide della globalizzazione. Ad esempio, un rapporto prodotto congiuntamente da Pwc, Rabobank e Temasek ha stimato che nel 2030 il valore complessivo del mercato del food&beverage asiatico raggiungerà 8 trilioni di dollari. Si tratta di una cifra di per sé già mostruosa, che diventa ancora più impressionante, se si considera che rappresenterebbe un raddoppio rispetto ai 4 trilioni registrati nel 2019. Cogliere anche solo una piccola parte di questo processo di crescita rappresenterebbe una rivoluzione per l’agricoltura italiana. Al riguardo appare interessante analizzare i maggiori mercati di sbocco dell’export agroalimentare italiano. Nel 2020, a occupare la top 5 si trovavano in ordine decrescente Germania, Francia, Stati Uniti, Regno Unito e Spagna. La locomotiva tedesca da sola ha assorbito il 17,1% delle vendite totali. In Asia solo il Giappone costituisce allo stato attuale una piazza di esportazione rilevante, nonostante la forte crescita della Cina, che nel 2020 ha addirittura mostrato un incremento pari al 130%. 

PORTE IN FACCIA

In pratica, sarebbe fondamentale per la filiera italiana operare un grosso sforzo di internazionalizzazione e di adozione delle migliori tecnologie agricole (non di rado provenienti dal nostro Paese), sforzo per il quale ovviamente sono necessari molti soldi. In particolar modo il comparto del private banking ha di fronte l’opportunità di costruire un rapporto di fiducia con il tessuto degli imprenditori agricoli italiani, offrendo una vasta gamma di servizi complessi, che gioco forza una banca tradizionale non può mettere insieme. Basti pensare, ad esempio, alle potenzialità che potrebbe avere il decollo di un mercato delle cartolarizzazioni dei mini-bond agricoli. In questo contesto all’industria del private banking spetta anche un altro compito fondamentale: mobilitare e coordinare una serie di competenze tecniche in grado di interfacciarsi con i protagonisti della filiera. Prima ancora di mettere a punto gli strumenti di finanziamento più adatti, sarà necessario un profondo lavoro per fare comprendere la centralità delle nuove tecnologie e dei nuovi mercati. Vi sono dunque enormi opportunità per chi saprà presentarsi sul mercato con un modello di business fatto di consulenza e di assistenza finanziaria, riunite in un unico pacchetto, riuscendo così a colmare il gap con questo vasto insieme di creatori di ricchezza che a lungo dalla finanza hanno ricevuto soprattutto porte in faccia.

Boris Secciani

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Responsabile Ufficio Studi Fondi&Sicav

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