Un’alternativa a bond e azioni

17 trilioni di dollari, una cifra enorme difficile persino da quantificare dal momento che si scrive con il numero 17 seguito da 17 zeri. Questo mostruoso ammontare rappresentava a fine 2020 il valore complessivo delle obbligazioni con un rendimento negativo. Questo concetto per molti investitori non è spesso di immediata comprensione, perché essenzialmente descrive che, tenendo un bond fino alla scadenza, si otterrà una serie di flussi di cassa il cui valore complessivo è inferiore a quanto pagato al momento dell’acquisto.

Tutto ciò, però, non impedisce di ricavare rendimenti positivi dal proprio portafoglio obbligazionario a patto di operare con un’asset allocation altamente dinamica, che incorpora una serie di nuovi rischi di notevole difficoltà gestionale. In pratica, oggi per ottenere rendimenti nominali (ancora peggio se reali) positivi bisogna o cercare emissioni di più limitata qualità creditizia o puntare su una continua prosecuzione dell’eterno mercato rialzista dei corsi del reddito fisso (il valore di mercato dei titoli già in circolazione cresce man mano che scendono i rendimenti), magari ottimizzando i punti di entrata nelle fasi di rialzo relativo dei rendimenti e di irripidimento delle curve. 

Al tempo stesso, se ci spostiamo sul mercato azionario, troviamo un panorama non facilissimo, nonostante il cosiddetto equity risk premium rimanga in molti casi elevato e una maggiore allocazione azionaria sia ritenuta una necessità inevitabile negli ultimi anni per incrementare il rendimento dei portafogli. Infatti, le quotazioni sono spesso ai massimi storici, anche incorporando previsioni di ripresa economica e di aumento degli utili aggressive. In concreto, lo spazio per costruire un portafoglio bilanciato fra le due grandi macro-asset class è alquanto ristretto, a meno di non accettare una serie di rischi probabilmente eccessiva per l’investitore medio. 

In un quadro del genere, non sorprende che negli ultimi anni abbiano riscosso un crescente interesse da parte degli investitori i fondi incentrati sui mercati privati. Con questa definizione si intende comunemente il debito e le azioni emesse da aziende non quotate in borsa, sovente (anche se non necessariamente) di piccole e medie dimensioni. Come si può capire, la liquidabilità è minore rispetto agli investimenti in bond e azioni di società di dimensioni maggiori i cui titoli sono stati quotati su una piazza regolamentata che garantisce un’ampia facilità di scambio. I prodotti del risparmio gestito incentrati sugli asset privati, sia rivolti alla clientela retail, sia agli istituzionali, necessariamente assumono la formula di fondi chiusi con un vincolo pluriennale di investimento. Oltre ovviamente alla qualità delle attività in cui si va a investire, infatti, una delle chiavi per generare extra rendimento sui mercati privati è data proprio dal cosiddetto premio di liquidità. In sostanza, rinunciando alla disponibilità del proprio denaro per un periodo sufficientemente lungo di tempo, si possono ottenere condizioni molto migliori che, secondo diverse ricerche, tendono a rimanere stabili nelle varie fasi del ciclo economico e dei mercati. 

Se il private equity è una realtà consolidata da decenni, il debito privato è emerso con prepotenza circa un decennio fa, diventando uno degli strumenti preferiti nel finanziamento di operazioni di M&A. 

Private equity

Per quanto riguarda l’investimento in azioni di aziende non quotate, negli ultimi anni è emerso un trend importante e promettente sulle prospettive future di questa asset class. Gli investitori hanno infatti capito che non possono più prescindere da un’esposizione in questo ambito e ciò ha determinato un flusso costante di liquidità, sia da parte degli istituzionali, sia delle persone fisiche. D’altronde, uno dei punti di forza maggiori dei prodotti del risparmio gestito incentrati sul private equity è costituito proprio dal fatto di avere accesso a una serie di operazioni particolarmente convenienti al termine di una fase di crisi. È interessante, infatti, quanto riportato in una ricerca di Bain&Company su questo aspetto: «L’inversione di tendenza relativamente rapida è in netto contrasto rispetto a quanto verificatosi dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009, quando il numero dei deal ha impiegato diversi anni a recuperare terreno. La differenza è dovuta a vari elementi: in primo luogo, l’industria ha raccolto 2.600 miliardi di dollari di capitale, più del doppio di quanto aveva all’inizio dell’ultima recessione, che al momento è fermo nelle casse delle società. Il tempo gioca contro questo capitale, il che significa che le aziende cercano urgentemente di fare affari. In secondo luogo, c’è un ampio incentivo a investire: il settore, con l’ultima recessione, ha imparato che gli investimenti fatti vicino alla fine del ciclo tendono a garantire rendimenti superiori alla media. In effetti, la finestra per trovare asset a prezzi vantaggiosi potrebbe essersi già chiusa».

L’intervento appena enunciato specifica che, rispetto al passato, oggi la disponibilità di liquidità è semplicemente enorme e che la gestione in tale asset class consente di investire nei momenti più favorevoli per la massimizzazione dei rendimenti. La crescita e la maturazione dell’industria vengono peraltro confermate da diversi dati emersi in ricerche sulla diffusione di questa tipologia di asset presso la clientela dei family office. Un sondaggio, condotto dal colosso bancario svizzero Ubs, mostra che fra gli intervistati i cosiddetti alternatives, ossia investimenti che esulano dalle normali strategie long-only attuate dai fondi venduti agli investitori privati, rappresentavano il 35% dei patrimoni della clientela. Quasi la metà di questo insieme, per un totale pari al 16% delle attività, risultava collocato in private equity, sia attraverso veicoli specializzati, sia in termini di investimento diretto. Si tratta di un punto importante su cui varrà la pena tornare successivamente.

Così fan tutti

Le aspettative peraltro appaiono particolarmente elevate: quasi tre quarti (73%) di coloro che hanno risposto alla stessa inchiesta esprimevano la propria convinzione sulle superiori prospettive di rendimento generate in questo segmento. Dall’altra parte, molti dati mostrano anche che la possibilità di tenere un investimento a lungo termine non soggetto a fluttuazioni giornaliere nei prezzi, come accade invece per le azioni quotate su mercati regolamentati, costituisce un ulteriore elemento a favore del private equity. Dunque, per molti è chiaro il desiderio di catturare il premio di liquidità e di affidare i propri soldi a specialisti di determinati settori in grado di cogliere le migliori opportunità di investimento in maniera anti-ciclica. A cementare il fenomeno vi è un aspetto che è apparso sempre più evidente nel corso degli ultimi anni e che è ben chiaro a tutti i maggiori responsabili di family office sul pianeta. Stiamo parlando di una sempre più frequente rinuncia da parte di molte aziende allo sbocco borsistico tramite Ipo. In particolar modo, in nicchie ad altissimo valore aggiunto (basti pensare alle biotecnologie e altri comparti della cura della salute) il ciclo di vita di una società sempre di più avviene tramite una serie di fasi di sviluppo finanziate dall’industria del venture capital e del private equity per arrivare poi a un’acquisizione da parte di altri player del comparto. 

Non sorprende, perciò, che dalla stessa ricerca appaia una forte predilezione per alcuni specifici temi growth che meglio rispondono alla filiera di sviluppo appena descritta. In particolar modo, circa il 77% dei clienti dei family office dichiara di avere esposizione al comparto dell’information technology all’interno della propria porzione di attività in private equity, mentre il 60% ha allocato denaro nella cura della salute. Nel complesso, l’idea centrale è che questa asset class rappresenti l’area dove trovare nicchie di valore relativamente inesplorate in segmenti dell’economia globale in crescita strutturale, con la possibilità di sfruttare sia contingenze tattiche favorevoli in termini di gestione dinamica, sia movimenti di lungo periodo. Il risultato è una fortissima popolarità per il private equity con il 77% dei family office che dichiara di investirci.

Una seconda carriera 

Altrettanto importante, rispetto alle dinamiche descritte, è poi un altro fenomeno, ossia l’acquisto diretto di azioni di aziende non quotate da parte degli investitori gestiti dai family office. Infatti, come abbiamo visto, il private equity occupa complessivamente il 16% delle attività finanziarie di questa tipologia di clienti. Ma un dato forse sorprendente  si evidenzia quando si disaggrega questo valore fra quota in prodotti gestiti e possesso diretto di azioni. Emerge, infatti, che quest’ultimo, con il 9% degli attivi a fronte del 7% attraverso fondi, rappresenta la maggior parte dell’esposizione in private equity.

Una percentuale molto rilevante di chi investe attraverso family office è costituita da imprenditori, che sottolineano di trovare motivo di grande soddisfazione professionale nel dare risorse ad altre aziende che non appartengono al loro business storico. Ciò si configura per l’imprenditore come una seconda carriera, mentre per le società partecipate è un’opportunità di condividere le competenze di nuovi azionisti attivisti. Da questo incontro possono nascere grandi potenzialità nel raggiungimento di obiettivi specifici, come, ad esempio, la riconversione dell’economia globale verso un quadro di maggiore sostenibilità.

private debt Alla prima vera prova

Se infine spostiamo la nostra attenzione sul debito privato, troviamo sicuramente un panorama di minore maturazione e diffusione, ma anche, in questo caso, enormi opportunità. Questa asset class è emersa con prepotenza soprattutto nell’ultimo decennio, dunque nel periodo post-crisi finanziaria. L’ascesa del debito privato è coincisa con un boom enorme del reddito fisso in generale, favorito da politiche monetarie senza precedenti. Di conseguenza, quanto è avvenuto nell’ultimo anno ha rappresentato un banco di prova importantissimo, perché ha fornito la prima vera fase di crisi che questa giovane asset class ha dovuto affrontare. Diversi dati mostrano che essa vede una certa concentrazione in comparti ciclici come i consumi discrezionali. In un quadro dove un certo aumento dei default c’è stato a livello globale per tutto l’insieme del credito aziendale (con una forte concentrazione negli Usa), sicuramente anche il debito privato va affrontato con una certa attenzione. Notevoli opportunità permangono però sulla base di un paio di motivazioni: innanzitutto una maggiore cautela generale favorisce una più accurata cernita degli emittenti, il che va senz’altro a favore dei compratori. 

Inoltre, proprio la mancata presenza di un mercato secondario sviluppato porta alla possibilità di gestire rischi ed eventuali aggiustamenti dei termini di prestito con maggiore flessibilità rispetto a titoli che invece sono soggetti a fluttuazioni continue di prezzo.

In definitiva, si può affermare che l’ascesa di strumenti meno liquidi, sia a livello azionario, sia obbligazionario, pur con tutti i caveat del caso, risponde in maniera quasi perfetta alle problematiche e alle trasformazioni in essere di questa epoca caratterizzata da una sempre maggiore importanza dell’intervento di governi e banche centrali. 

Boris Secciani

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Responsabile Ufficio Studi Fondi&Sicav

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